Iam enim securis ad radicem arborum posita est.
(Mt 3, 10)

sabato 15 novembre 2025


Quale Tradizione?

 

Il dramma del tradizionalismo è che considera la Tradizione una cosa morta, un deposito inerte da passare semplicemente di mano in mano, mentre essa è cosa viva, che cresce e si sviluppa. Ciò non va indubbiamente inteso come una mutazione, bensì come uno sviluppo omogeneo, analogo a quello degli organismi viventi, i quali, pur modificando l’aspetto visibile, conservano la propria identità. L’insieme di dottrine, norme e istituzioni che costituiscono la Tradizione cattolica e che Gesù Cristo ha consegnato agli Apostoli perché lo trasmettessero inalterato alle generazioni future non è dunque un cadavere, ma un corpo vivente di cui la Chiesa, nel corso del tempo, esplicita progressivamente le virtualità già presenti fin dall’inizio, benché allo stato embrionale.

Voluta rottura della continuità

Tutto ciò vale tanto per il dogma quanto per le strutture e le leggi ecclesiastiche. Pur mantenendo inalterato il proprio “patrimonio genetico”, la Chiesa ha assimilato il pensiero greco, indispensabile alla definizione delle verità rivelate, il diritto romano, necessario alla sua strutturazione, nonché quelle usanze germaniche che le permisero di organizzarsi nelle nuove condizioni determinatesi con la caduta dell’Impero. La scoperta di nuovi continenti la spinse a elaborare metodi missionari adatti, mentre il sorgere degli Stati nazionali plasmava le innumerevoli sfaccettature del suo volto esterno, pur senza frantumarne l’unità né scuoterne la coesione, a parte gli effetti deleteri di quel deprecabile fenomeno, ad essa del tutto estraneo, che sono i diversi nazionalismi.

Prima del Vaticano II, a prescindere sia dal neomodernismo serpeggiante sia dalle frequentazioni massoniche di chi lo convocò, era senz’altro necessario far entrare un po’ d’aria fresca, come quegli rispose a chi lo interrogava sul fine che si era proposto nell’indire un concilio. Il clima, all’interno della Chiesa terrena, era diventato insopportabilmente stagnante, mentre la fede, dietro la facciata di certo trionfalismo, pativa diffusamente una crisi senza precedenti nel clero e nei fedeli. Il problema è che quanti presero il controllo dell’assise non aprirono la finestra all’aria pura del cielo ma a quella mefitica del mondo, che invase tutto come un uragano e, col pretesto dell’aggiornamento, sovvertì ogni cosa, modificando sistematicamente ogni elemento della vita ecclesiale.

Per spiegare come ciò sia stato possibile, non va ignorato il ruolo della neoscolastica decadente con la sua visione assolutistica del Papato e la concezione giuridicistica della dottrina, del culto e della morale: qualunque cosa fosse stata decisa dal vertice andava supinamente accettata per obbedienza cieca. Fu così che la Tradizione ridotta a cadavere fu sepolta e le fu sostituita una nozione che, in opposizione ai princìpi dello sviluppo organico, ne consentisse una sorta di manipolazione genetica. Un ruolo determinante, in tale trasformazione, doveva giocare il culto liturgico, visto il suo legame essenziale con il dogma, la morale e la vita spirituale; perciò l’intero rito romano fu radicalmente stravolto in ogni sua parte, a cominciare dalla Messa.

Curare il male con la sua causa?

Ora, un male non si cura con ciò che l’ha causato: riprodurre meccanicamente il giuridicismo degli anni Cinquanta con una pedissequa esecuzione di usi e rubriche non è la soluzione. La cosiddetta riforma liturgica, aprendo la stagione delle incessanti innovazioni e sperimentazioni selvagge, ha sicuramente ridotto il culto (che per essenza è una realtà stabile, immune dai cambiamenti culturali) a pratica estemporanea, aleatoria e caduca con cui rincorrere i mutevoli gusti del tempo e soddisfare emotivamente assemblee annoiate e capricciose. Tuttavia non si risolve il problema con un muro-contro-muro, sbattendo la faccia di gente completamente disabituata contro la parete granitica di un rito di cui non comprende più né i gesti né le parole: ci vuole qualcosa di più.

Se la liturgia, prima del Vaticano II, soffriva – come la fede – di una crisi che portò ad accogliere le novità con ingannevole sollievo, neanche la crisi attuale (cominciata allora ma inasprita all’estremo da risposte sbagliate) potrà esser superata con un culto eseguito in fretta, per abitudine, senza cuore né afflato spirituale. Non si tratta di forzare le prescrizioni del Messale con iniziative individuali di sapore soggettivo e contingente, ma di applicarle con intima partecipazione e profonda intelligenza delle loro ragioni. Senza nulla togliere all’utilità di una formazione liturgica adeguata ai fedeli, è il rito stesso che deve parlare tramite l’atteggiamento di tutti i ministri, comunicando un vivo senso della presenza divina e suscitando moti di adorazione, pentimento, supplica e offerta di sé.

Soluzioni che aggravano il problema

Non c’è dubbio: la contraffazione del culto ha contraffatto la Chiesa e la vita cristiana; per innescare il processo inverso, però, non basta criticare i testi dell’ultimo concilio né coltivare piccoli ghetti in cui appagarsi di belle cerimonie e dotte omelie. Ci sono cattolici che sembrano ansiosi unicamente di soddisfare il proprio io e a cui pare importare ben poco della Chiesa e delle anime. Un’istruzione religiosa che non incentivi l’amore di Dio e del prossimo non fa dei cristiani, bensì dei fanatici. La vita spirituale non consiste in polemiche o disquisizioni, ma nella cura di un cuore ardente che, ben lungi dal rinchiudersi in un recinto esclusivo, ne accenda altri e li attiri a Cristo, non inculcando loro una morta ideologia, bensì risvegliando in essi la sete della trascendenza.

C’è un modo di fare dottrina che si direbbe studiato apposta per giustificare decisioni discutibili e posizioni insostenibili. La fede non è una teoria, ancor meno una teoria che ignori la realtà: ci sono gruppi che, di fatto, sono separati dalla Chiesa e funzionano in maniera del tutto indipendente. Per legittimare tale situazione, non serve accanirsi contro la collegialità (ulteriormente degenerata nella sinodalità) come principio dissolutivo della compagine ecclesiale, dato che quella stessa situazione contribuisce alla sua dissoluzione. Per reagire all’indifferentismo dilagante, non serve condannare le dottrine dell’ecumenismo e della libertà religiosa, se con un apostolato canonicamente irregolare si avvalorano nei fatti i princìpi protestantici di un’attività religiosa sganciata da ogni autorità.

È senz’altro lamentevole che il Papa riesumi la Nostra aetate (di cui il cattolico medio non sa nulla) per insinuare l’uguaglianza di tutte le religioni; che però, con l’intento di criticarla, la tenga in vita proprio chi difende la Tradizione è un non-senso. Non intendiamo certo negare gli effetti disastrosi di quel documento, scritto col concorso di rabbini ebrei, bensì osservare che quel problema non si cura demolendo il Magistero con il rifiuto di un testo al quale, indebitamente, si riconosce un valore magisteriale, ma mostrando che, in realtà, la dichiarazione non è una delle forme del Magistero ecclesiastico. Alla Nostra aetate mancano i requisiti del Magistero autentico; essa, pertanto, non obbliga minimamente la coscienza dei cattolici. Perciò, malgrado i tentativi di risuscitarla, è meglio lasciarla sepolta nell’oblio e ribadire quanto afferma il Catechismo sulle false religioni.


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