Che non succeda a noi come a loro
Chi ritiene di stare in piedi badi di non
cadere (1 Cor 10, 12).
Il Signore ci ammonisce riguardo al fatto che
l’essere membri della Chiesa, che è certamente una grazia immensa, non è
tuttavia sufficiente per garantirsi la salvezza definitiva, in quanto è
necessario perseverare sino alla fine. Per questo san Paolo ricorda gli esempi
storici della peregrinazione di Israele nel deserto:
erano stati liberati dall’Egitto, sì, ma non
erano ancora giunti alla Terra promessa. Gran parte di loro non vi arrivò, proprio
perché non perseverò nella fede e cedette alle tentazioni (cf. 1 Cor 10, 5ss).
La tentazione, quasi sempre, fa leva sulle concupiscenze, sui bisogni più
immediati, che però non sono più volti al loro fine (il sostentamento e la
trasmissione della vita), bensì sono deviati verso il piacere preso come fine a
se stesso. Così
– dice l’Apostolo – la maggior parte degli Israeliti perì nel deserto perché
non era rimasta fedele al Signore e, non avendo apprezzato la grazia inestimabile
della liberazione, non aveva avuto la pazienza di sostenere la prova fino in
fondo.
Nel Vangelo il Signore, avvicinandosi a
Gerusalemme per il Suo ingresso trionfale, quando vede la città dall’alto del
Monte degli Olivi, scoppia in pianto (cf. Lc 19, 41).
Qui si vede la carità di Gesù, il suo amore
per gli uomini, in particolare per il Suo popolo. Egli sospira: «In questo
giorno, che era il tuo (cioè nel giorno della tua salvezza), tu non hai
riconosciuto ciò che ti conduce alla pace. Ormai questa grazia è nascosta ai
tuoi occhi, perché l’hai rifiutata. Verranno giorni in cui i nemici ti
circonderanno, ti assedieranno e poi, dopo averti presa, ti raderanno al suolo
e uccideranno tutti i tuoi figli (cf. Lc 19, 42-44).
Questa storia deve istruirci: ciò che è
accaduto nelle vicende bibliche, evidentemente, è un ammonimento per noi oggi.
La durezza di cuore dell’antico Israele fu
causa della sua rovina, non solo di quella di Gerusalemme e della Nazione, che sarà
poi dispersa, ma soprattutto della sua rovina spirituale: nell’ostinato rifiuto
del Messia questo popolo – o almeno quello che ne rimane – continua ad opporsi
ai piani divini nel vano tentativo di realizzare le promesse fatte ai padri,
dalle quali, però, è decaduto. Le promesse di Dio sono certamente irrevocabili
ma l’uomo può decaderne, se non rimane fedele alle condizioni che Dio ha posto
perché si possa godere di ciò che ha promesso. Sul piano spirituale, perciò, il
giudaismo è sì sopravvissuto, ma in una forma deviata, in quanto si è perpetuato
come religione avversa al Cristianesimo, come causa di opposizione perenne
all’unica vera religione, che è quella dell’Antico Testamento, giunta con il
Nuovo alla perfezione.
È ovvio che, nel momento in cui, con il Sacrificio
del Figlio di Dio, è stata instaurata la Nuova Alleanza, quella antica ha cessato
di essere in vigore. Tuttavia il giudaismo continua ancora ad essere praticato,
benché non ci sia più alcun motivo per la sua sussistenza, in quanto ciò che c’era
all’inizio come premessa e preparazione ha trovato compimento nel Cristianesimo.
Ora, questa è una rovina spirituale di gravità inimmaginabile, perché significa
chiudersi completamente alla luce di Dio, respingere ostinatamente i Suoi richiami,
continuare a opporsi all’avvento del Suo Regno, che nessun essere umano può
fermare.
Questa rovina spirituale ha inevitabili ripercussioni
anche sul piano politico: perciò a un certo punto è stato concepito il nefasto
progetto di ricostituire uno Stato ebraico, che però non ha alcuna legittimità
né sul piano giuridico né su quello teologico. Sul piano giuridico è ridicolo
avanzare motivazioni di tipo religioso rivendicando un diritto che risale a più
di tre millenni fa, diritto che, come appena accennato, è stato comunque perso a
causa delle continue ribellioni del popolo, delle sue infedeltà, dei suoi
cedimenti all’idolatria, che lo hanno fatto decadere dall’Alleanza. Ciò avvenne
già nel 586 a.C., quando i Babilonesi espugnarono Gerusalemme per la prima
volta; poi successe di nuovo con Tito nel 70 d.C. Per imporre tale falso
messianismo, tutto un popolo è stato scacciato dalla sua terra e costretto a
vivere in un regime di apartheid, prima che si procedesse chiaramente al
suo sterminio, che sta avvenendo sotto i nostri occhi senza che nessuno faccia
nulla per fermarlo. L’annuncio del castigo è perentorio: «Non lasceranno in te
pietra su pietra» (Lc 19, 44).
Sul piano teologico questa pretesa è ancora
più infondata, proprio perché tutte le promesse di Dio si sono compiute per
noi, che siamo il nuovo Israele, la Chiesa Cattolica. Ciò che Dio aveva
promesso nell’Antico Testamento è stato realizzato nel Nuovo; siamo quindi noi
gli eredi dei beni promessi da Dio, che non sono però un territorio geografico né
uno Stato inteso in senso politico, bensì i beni del Regno di Dio, che
abbraccia l’umanità intera, chiamata a convertirsi aderendo a Gesù Cristo con
la fede e venendo rigenerata da Lui col Battesimo. Sono questi i beni
messianici: sono quelli della grazia di cui godiamo nella Chiesa; sono quelli
della gloria di cui, con tutti i Santi, gode l’Assunta in Paradiso in un
tripudio di carità e di gioia.
A questo punto veniamo a noi. Come dicevamo, i
fatti della storia sacra sono lezioni. Se stiamo in piedi per grazia di Dio, perché
il Signore ci ha risollevati, badiamo di non cadere, cioè facciamo in modo che
non capiti anche a noi ciò che è successo all’antico Israele: non decadiamo da
questo stato benedetto e privilegiato in cui il Signore ci ha collocati per
pura benevolenza. Prima di tutto dobbiamo vivere in una gratitudine continua,
ringraziare ininterrottamente il Signore per la dignità di cristiani che ci ha
dato nel Battesimo: è la dignità di figli di Dio, creature partecipi della Sua
vita; poi, evidentemente, dobbiamo conformare la nostra esistenza a ciò che
siamo.
A questo scopo, bisogna non soltanto respingere
le tentazioni più grossolane con cui il diavolo fa leva sui nostri bisogni
primari, ma soprattutto imparare a non mormorare, a non lamentarci di ciò che
la Provvidenza dispone per noi, poiché tutto, perfino le prove, ha un fine
positivo. Dio ci mette alla prova per affinare la nostra fedeltà a Lui, per
rafforzare il nostro attaccamento, per farci progredire nell’unione con la
Santissima Trinità. Tutto ciò che Dio dispone o permette è dunque per il nostro
bene; il cristiano, di conseguenza, accoglie con serenità e gratitudine tutte
le evenienze, sapendo che sono tutti mezzi disposti da Dio per il suo
progresso. In questo modo la nostra anima e il nostro corpo saranno un tempio.
Noi già lo siamo in virtù del Battesimo, perché lo Spirito Santo abita in noi,
ma bisogna che tutte le espressioni del nostro essere manifestino la presenza
di Dio in noi.
Quando il Signore purificò il Tempio di
Gerusalemme dai venditori, citò i Profeti quando Dio dice: «La mia casa è casa
di preghiera; voi, invece, ne avete fatto una spelonca di briganti» (Lc 19, 46;
cf. Is 56, 7; Ger 7, 11). Ogni volta che nella nostra anima prevalgono i
pensieri cattivi, i sentimenti negativi, le deliberazioni contrarie alla Legge
di Dio, essa diventa una spelonca di briganti, un riparo dei demoni.
Facciamo allora in modo che essa sia davvero
un tempio, che sia una casa di preghiera dove Dio è adorato giorno e
notte, dove almeno nell’intimo sale a Lui una lode incessante. Così diverremo
sempre più capaci di riconoscere i momenti in cui il Signore ci visita con un’ispirazione
intellettuale o con una mozione dello Spirito Santo.
Non possiamo evidentemente pregare sempre in modo espresso anche con la mente, poiché, se siamo occupati in qualche cosa, non possiamo formulare una preghiera esplicita. Tuttavia il movimento del cuore, l’aspirazione dell’anima alla vita eterna e al godimento di Dio non deve mai cessare: al contrario, deve essere sempre presente e alimentare ogni nostro sforzo indirizzandolo verso il suo fine ultimo, in modo che ogni azione acquisti un senso soprannaturale: non rimanga semplicemente un fatto terreno, ma diventi un gradino per avvicinarci al Cielo.
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