Quale comunione episcopale?
La Costituzione Apostolica Episcopalis
communio, datata 15 settembre 2018, abroga in una volta sola
l’Ordo Synodi Episcoporum, promulgato da Benedetto XVI il 29
settembre 2006, gli articoli (quali?) del Motu proprio Apostolica
sollicitudo di Paolo VI, del 15 settembre 1965, e
tutti i canoni del Codice di Diritto
Canonico «direttamente contrari a qualsiasi articolo» del documento in
oggetto. Come già in altri casi (per esempio, le norme che regolano le cause di
nullità matrimoniale o quelle riguardanti la vita claustrale femminile) il
brutale colpo di spugna impone innovazioni giuridiche foriere di profondi
cambiamenti. Il Sinodo dei Vescovi, istituzione inventata al termine
dell’ultimo concilio per renderlo in qualche modo una realtà permanente, si è
inopinatamente trasformato, da istanza puramente consultiva, in organo
deliberativo per il governo della Chiesa universale.
Le modifiche introdotte non possono non dare
l’impressione che, proprio in nome della sinodalità
e dell’ascolto del Popolo di Dio, si
sia voluto surrettiziamente creare uno strumento estremamente centralizzato
volto a imporre alla Chiesa cambiamenti dottrinali e disciplinari aggirando
qualunque forma di doverosa verifica: la
Curia Romana, come pure il senato dei cardinali, rimane praticamente estromessa, il tanto celebrato
collegio episcopale è ridotto a mero esecutore di direttive superiori,
il concilio ecumenico diventa semplicemente superfluo. Nella preparazione,
celebrazione e attuazione di un sinodo, infatti,
un enorme potere discrezionale è attribuito alla Segreteria Generale,
organo permanente di nomina pontificia che opera sotto la diretta autorità del
Papa. Non parliamo poi dell’esercito di periti, uditori, invitati speciali e
delegati fraterni di altre confessioni da lui designati, che possono prender la
parola, pur senza diritto di voto, e concorrere alla stesura dei testi.
Ma la novità più consistente è la
modalità di pubblicazione del documento finale, elaborato dalla commissione
sinodale: una volta approvato dai vescovi con un’unanimità morale, non determinata dal computo dei voti, ma vista
come frutto dello Spirito, esso è
offerto al Romano Pontefice, che si riserva la decisione di pubblicarlo oppure,
nel caso in cui egli abbia concesso all’assemblea potestà deliberativa, è da
lui direttamente ratificato e promulgato. In entrambi i casi, alla fine, esso
gode dell’autorità del Magistero ordinario del Successore di Pietro, senza più
alcun bisogno di attendere, com’è stato finora, una successiva esortazione
apostolica elaborata con il suo personale apporto alle riflessioni dei Padri
sinodali. Dato che non si fornisce alcuna indicazione sul tipo di maggioranza
richiesta per l’approvazione di detto documento, è arduo allontanare il
sospetto che, con un oculato controllo delle procedure, si vogliano far passare
decisioni prese in precedenza.
I due recenti sinodi sulla famiglia, del
resto, costituiscono un precedente tutt’altro che rassicurante, visto come si
sono dimostrati un pretesto per aprire un varco alla legittimazione della
sodomia e dell’adulterio permanente. In questo caso, sembra che l’intenzione
sia quella di sdoganare i rapporti prematrimoniali
e la contraccezione, il diaconato femminile e i preti sposati, oltre a quella
di spingere ulteriormente nel senso dell’agenda omosessualista. Questa volta,
però, sarà tutto più semplice: non ci sarà bisogno di machiavellici
retroscena, come quello candidamente confessato da monsignor Forte poco dopo la
pubblicazione dell’Amoris laetitia. In una pubblica
conferenza il presule ha svelato il criterio, altamente teologico, indicato da
Bergoglio alla commissione incaricata di redigere il testo conclusivo dell’assemblea del 2015: «Se parliamo
esplicitamente di comunione ai divorziati risposati, questi non sai che casino che ci combinano. Allora non ne
parliamo in modo diretto; fa’ in modo che ci siano le premesse, poi le
conclusioni le trarrò io».
Non c’è che dire: a parte lo squisito
linguaggio, che ben si addice al Romano Pontefice, sono parole evocatrici di
una rettitudine cristallina, nonché di una profonda stima per i vescovi
convenuti da ogni latitudine al suo invito, ma non tutti disposti a ingoiare
supinamente qualsiasi boccone, come – tanto per fare un esempio – l’interpolazione
sul contributo positivo che gli omosessuali possono dare alla vita della
Chiesa, infilata nella relazione intermedia del sinodo del 2014 proprio dal
gran “teologo” appena menzionato. È vero che le coscienze le scruta solo Dio,
ma le condotte son sotto gli occhi di tutti e, in molti casi, sono rivelatrici
delle intenzioni. Ora, un comportamento poco retto non può essere, secondo la
morale cattolica, frutto di un intento onesto; ma quei signori, a quanto pare,
seguono princìpi diversi, più caratteristici dei marxisti.
Per chi ha quel tipo di mentalità,
hegeliana nella matrice e leninista nello sviluppo, l’uomo non deve conformarsi
a un ordine prestabilito ma, al contrario, trasformare la realtà secondo
un’idea o un progetto da lui concepito. Per ottenere tale scopo, tutti i mezzi
sono leciti, per il semplice motivo che il concetto stesso di lecito o illecito
è determinato dalla corrispondenza o meno all’idea e dalle necessità
contingenti della sua attuazione. Al di fuori di questa forma mentis non si riesce a capire la modalità d’azione di Bergoglio
e dei suoi compari; al suo interno tutto diventa chiaro. La realtà di cui sostengono di volersi
mettere in ascolto è piuttosto un escamotage
per imporre una visione del mondo e della vita puramente orizzontale, letta oltretutto
in modo selettivo e attraverso un prisma deformante in modo da offrire una base
incontestabile a decisioni già prese.
I giovani, nella realtà effettiva, non
sono come risultano da sondaggi e questionari che escludono sistematicamente
quelli che non rientrano in uno stampo costruito ad arte per imporre loro modelli
artificiali ed esercitare su di essi pressioni di natura psicosociale. Sono
decenni che la “pastorale giovanile” lavora nell’astratto di analisi
sociologiche taroccate che, nella mente di preti e animatori, formano un filtro
capace di impedire la percezione immediata
del reale e il naturale contatto con le persone, classificate come
“casi” anziché accolte in semplicità; il risultato sono progetti elaborati in
provetta che servono non ai giovani, ma a chi li inventa e ne vive, in tutti i
sensi. Peccato, grazia e responsabilità non entrano nel discorso se non come
varianti un po’ rétro di concetti
psicologici o di fenomeni sociali… quando invece, a ben vedere, chi è rimasto
indietro son proprio loro, che non vedono – in quanto è fuori della loro
visuale – che la gioventù migliore ha da tempo imboccato altre strade e non li
sente nemmeno più.
Perfettamente coerente con questa pervasiva
mistificazione è l’Instrumentum laboris del sinodo, che oltre a capovolgere il
rapporto tra Ecclesia docens ed Ecclesia
discens si rivela frutto
proprio del sociologismo appena evocato, nonché di un’antropologia amputata
sfociante nel sentimentalismo e nell’individualismo.
In sintesi, non riusciamo proprio a sfuggire al timore che anche la prossima
assise sia una trappola, un modo di usare i giovani per promuovere altri scopi.
È una mossa senza precedenti quella con cui, a due settimane dall’inizio dei
lavori, tale istituto è stato radicalmente innovato in modo da blindarne le
conclusioni; è un modo di agire da
rivoluzionari che fa presagire obiettivi rivoluzionari: fabbricare ideologicamente
una nuova Chiesa facendo credere che
siano i giovani a volerla, come già le “emarginate” coppie irregolari.
L’evidente
sforzo manipolatorio che ha caratterizzato gli ultimi due sinodi sembra orientare
anche la nuova costituzione apostolica, che a proposito di uno strumento
prettamente pastorale insiste, senza alcuna pertinenza, sulla ricerca della verità. Un’istanza di sussidio
al ministero papale non mira alla definizione della fede e della morale, ma le
presuppone e le applica. Le questioni controverse sono appannaggio dei teologi, che sottomettono poi i risultati delle loro
indagini all’autorità del Magistero. Nella Chiesa i problemi dottrinali aperti
– qualora realmente sussistano e non siano creati a bella posta – non si
chiariscono a colpi di maggioranza; quando invece le risposte già son date e
sono chiare, voler cercare ulteriormente la verità è un peccato contro lo
Spirito Santo. In un pontificato la cui trasparenza è nulla e la credibilità è
precipitata a causa degli scandali, farebbero molto meglio ad occuparsi
d’altro; tanto per cominciare, rispondere alle reiterate accuse di monsignor
Viganò.
Come sempre grazie don Elia!
RispondiEliminaCondivido anche questo articolo molto interessante a mio avviso, per capire sempre meglio come si è arrivati a dove siamo ora.
https://www.riscossacristiana.it/padre-pio-anticristi-romanzo-infernale-di-alessandro-gnocchi/
Alcuni cattolici hanno perso l’abitudine, quasi un comandamento, a fare obiezioni critiche su ciò che ci circonda”.
RispondiEliminahttp://www.lanuovabq.it/it/i-cattocinema-senza-giudizio-sedotti-dal-film-pederasta
Questa è la domanda che Pietro fa a Cristo. «Signore, dove altro andremo?»
Chi altro ha parole di vita eterna?
Gli scandali sono una domanda sulla nostra fede .
http://www.lanuovabq.it/it/gli-scandali-sono-una-domanda-sulla-nostra-fede
Come rispondeva Padre PIO :
“Padre Pio taceva. L’altro temette di aver detto troppo. Ma Egli invece intervenne allora molto gravemente: ‘Se a noi sacerdoti aspetta un castigo e terribile è precisamente per non aver fatto nulla per riconquistare a Dio quelle anime. E io penso, sì, che un castigo aspetta noi sacerdoti, un grave castigo’”. Non disse che il castigo sarebbe spettato ai sacerdoti indegni, ma “a noi sacerdoti” e lui lo stava provando nel suo corpo, nella sua anima e nel suo spirito. Stava soffrendo nel suo sacerdozio lo sfregio portato dai suoi stessi fratelli al sacerdozio di Cristo, proprio come Gesù soffriva sulla croce i peccati degli uomini.
Conclusione della riflessione :
SOLO LA SANTITÀ CI POTRÀ SALVARE
Concordo pienamente. Grazie!
Elimina"Piaccia a Dio che questo non accada, raccomandiamoci caldamente al Signore, perché vadano a vuoto i loro rei disegni. "
RispondiEliminaQuando mi e' possibile passo a pregare sulla tomba di questa Santa , Elisabetta Canori Mora . Noi del gregge cerchiamo di conoscere il carisma di questa madre e sposa fedele ed imitarla . Non spaventiamoci delle profezie , piuttosto come lei preghiamo e ripariamo , impieghiamo bene il nostro tempo che fugge veloce e se del caso ri-cominciamo . Aumenti il nostro fervore , la nostra carita' sì che potremo esclamare anche noi , al pari di S.Elisabetta Canori Mora : “Hai vinto, hai vinto pure una volta, o santo amore! Hai vinto la durezza del mio ostinato cuore, o sacro dardo di amore, trapassa viepiù il mio cuore!” » https://gloria.tv/article/BkhMjw2me4t32VL3Ndc9aJEM3
Il Magistero di Benedetto XVI
RispondiEliminaSanta Messa con i membri della
Commissione Teologica internazionale,
6 ottobre 2006
Nella loquacità del nostro tempo, e di altri tempi, nell’inflazione delle parole, rendere presenti le parole essenziali. Nelle parole rendere presente la Parola, la Parola che viene da Dio, la Parola che è Dio. Ma come potremmo, essendo parte di questo mondo con tutte le sue parole, rendere presente la Parola nelle parole, se non mediante un processo di purificazione del nostro pensare, che soprattutto deve essere anche un processo di purificazione delle nostre parole? Come potremmo aprire il mondo, e prima noi stessi, alla Parola senza entrare nel silenzio di Dio, dal quale procede la sua Parola? Per la purificazione delle nostre parole, e quindi per la purificazione delle parole del mondo, abbiamo bisogno di quel silenzio che diventa contemplazione, che ci fa entrare nel silenzio di Dio e così arrivare al punto dove nasce la Parola, la Parola redentrice. San Tommaso d'Aquino, con una lunga tradizione, dice che nella teologia Dio non è l'oggetto del quale parliamo. Questa è la nostra concezione normale. In realtà, Dio non è l'oggetto; Dio è il soggetto della teologia. Chi parla nella teologia, il soggetto parlante, dovrebbe essere Dio stesso. E il nostro parlare e pensare dovrebbe solo servire perché possa essere ascoltato, possa trovare spazio nel mondo, il parlare di Dio, la Parola di Dio. E così, di nuovo, ci troviamo invitati a questo cammino della rinuncia a parole nostre; a questo cammino della purificazione, perché le nostre parole siano solo strumento mediante il quale Dio possa parlare, e così Dio sia realmente non oggetto, ma soggetto della teologia.