Doglie del parto
Stiamo soffrendo in modo inaudito per lo stato della
Chiesa; ma non è una sofferenza sterile, bensì il preludio di una rinascita.
Certamente il Corpo mistico non può morire né rinascere: è nato una volta per
tutte dal costato trafitto del Redentore crocifisso e cresce incessantemente
verso la propria consumazione celeste. La sua componente terrena, tuttavia,
essendo legata alle vicissitudini della storia, può conoscere alterne fasi di
fioritura o di declino. Se è vero – come è vero – che il suo stato di salute
non si misura sull’indice di gradimento mediatico del suo (supposto) capo
visibile, in questi anni non possiamo certo esultare, se osserviamo quanto la
pratica delle virtù evangeliche si sia drammaticamente rarefatta e il ricorso
al sacramento della Penitenza sia vistosamente precipitato; se poi si mettono
in conto le assoluzioni invalide per mancanza di sincero pentimento e di
proposito efficace, la situazione si rivela ancora più tragica.
Tra pochi mesi, per giunta, partirà l’inedito giubileo della misericordia (come se un
anno santo non servisse per sua natura a concedere il perdono di Dio a chi ha
le disposizioni interiori necessarie, con la remissione delle pene del
Purgatorio a chi è libero da qualsiasi attaccamento al peccato…). Dei missionari pontifici saranno incaricati
di recarsi in ogni singola diocesi per garantire l’ottemperanza alla volontà
papale, casomai qualche vescovo o parroco renitente osasse pensare di
mantenersi entro i limiti della sana dottrina. Essi avranno la facoltà di
rimettere anche i peccati che comportano la scomunica latae
sententiae riservata alla Sede Apostolica: un Guglielmo di
Nogaret potrebbe farsi assolvere sul campo, mentre monsignor Faure starà
certamente nutrendo speranze in un’insperata riconciliazione con la nomenklatura romana.
Scherzi a parte, il numero di confessioni sacrileghe
– e di conseguenti comunioni sacrileghe – aumenterà in modo esponenziale. Come
si farà, oltretutto, a distinguere i sacerdoti dei quali ci si può fidare
perché, nell’assolvere e nel consacrare, intendono realmente fare ciò che fa la Chiesa? Non tutti
hanno il dono spirituale di percepire, come una santa madre di famiglia di mia
conoscenza con cinque figli a carico e marito disoccupato, se un sacerdote è
stato generato o no dalla mistica unione di Gesù e Maria insieme sofferenti sul
Calvario. Sarebbe a dire che non tutti i sacerdoti sono ugualmente consacrati?
Ovviamente no: è sufficiente che siano stati validamente ordinati; ma non tutti
hanno la stessa fecondità spirituale. Una cosa è rigenerare le anime con il
Sangue di Cristo (e con il proprio, mescolato ad esso), un’altra è fungere da
animatore-intrattenitore-aggregatore a servizio di una struttura
socio-assistenziale.
Il secondo può pure lavorare ad orario, dedicando il
tempo libero ai suoi interessi preferiti, leciti o meno; il primo è crocifisso
in permanenza con Colui che rappresenta e, proprio come il divino Agricoltore,
si sforza senza posa di liberare dai rovi la Sua vigna e di tenerne lontano le
bestie selvatiche. Dato però che la cinta è stata abbattuta e che la vigna si
ribella, in quanto ama i suoi rovi e non vuole separarsene, il compito del
ministro fedele appare sempre più come una missione impossibile. Se poi la
vigna soffre acutamente per i parassiti che la infestano a causa dei suoi
stessi peccati, a cui non vuole assolutamente rinunciare, come fa un Pastore,
per quanto misericordioso, a provare giusta compassione per essa? Senza meno
sarà afflitto dal suo stato, ma in coscienza non potrà sentirsi solidale con
sofferenze colpevoli, se la sua coscienza è retta. È pur vero che il Figlio di
Dio si è fatto peccato per la nostra
giustificazione (cf. 2 Cor 5, 21), ma non perché chi è rinato dal Suo
sacrificio continuasse a crocifiggerlo…
Non tutte le sofferenze sono uguali: quelle di cui
si è responsabili per ostinazione nel peccato non portano nulla di buono, ma
sono utilizzate dal diavolo per spingere i fedeli di Cristo alla bestemmia e
all’apostasia, dopo averli indotti alla disobbedienza, a meno che il peccatore
non ascolti il sussurro dello Spirito Santo, che di quelle stesse sofferenze si
serve per spingerlo alla conversione. Per quanto sembrino intollerabili,
invece, quelle provocate in un’anima pura dal triste spettacolo del male, ormai
ammesso e giustificato anche da (falsi) uomini di Chiesa, hanno uno sbocco
positivo; una madre sa di che si tratta, perché ha sperimentato nel fisico un
dolore simile per analogia. Questi sono dolori del parto: sta per nascere un
mondo veramente nuovo, nel quale la Sposa di Cristo che è sulla terra,
purificata dalle menzogne e dai peccati che ne derivano, risorgerà santa e
immacolata, come la vuole il suo Sposo. Per il momento tutto questo non si
vede, perché è come un feto nascosto nel grembo materno; ma un giorno – forse non
lontano – verrà alla luce, partorito dalla Vergine Madre come già una volta ai
piedi della Croce.
Secondo la profezia della beata Anna Caterina
Emmerich, combinata con la visione di papa Leone XIII, si può calcolare che
occorra resistere ancora per venti-trent’anni. Visto che per Lui mille anni
sono come un giorno solo, si tratta di una manciata di minuti, nei tempi di Dio – i quali non sono una
scusa per lasciare che i peccatori perseverino nel peccato grave (attribuendone
la responsabilità, in definitiva, a Colui che in realtà lo aborrisce), ma
un’opportunità di salvezza che la sua infinita pazienza concede loro. Forse
alcuni di noi vedranno la nuova èra dall’alto, festeggiandola con gli Angeli e
i Santi; l’importante è che la loro preghiera non ci abbandoni per tutto il
tempo in cui dovremo lottare in questo mondo, in cui i demòni si sono scatenati
e scorrazzano indisturbati dappertutto – anche nelle chiese. Ebbene, sono
cominciate le contrazioni, ci avviciniamo alla battaglia decisiva; ma non
abbiamo nulla da temere, purché rimaniamo fedeli a Colui che ha vinto il mondo
e dona anche a noi la capacità di vincerlo grazie alla fede in Lui (cf. Gv 16,
33; 1 Gv 5, 5).
La donna, quando
partorisce, è afflitta perché è giunta la sua ora; ma, quando ha dato alla luce
il bambino, non si ricorda più dell’afflizione per la gioia che è venuto al
mondo un uomo (Gv 16, 21).