Iam enim securis ad radicem arborum posita est.
(Mt 3, 10)

 

L’idea messianica nella Qabbalah

 

 

Il XIX secolo e l’ebraismo del XIX secolo hanno trasmesso al pensiero moderno un insieme di idee sul messianismo che hanno portato a distorsioni e falsificazioni da cui non è affatto facile liberarsi. Ci hanno insegnato che l’idea messianica è parte integrante dell’idea di progresso della razza umana nell’universo, che la redenzione si raggiunge con il progresso continuo e solitario dell’uomo, il quale condurrà infine alla liberazione di tutto il bene e di tutta la nobiltà celati dentro di lui. Questo, in sostanza, è il contenuto che l’ideale messianico ha acquisito sotto il dominio congiunto del liberalismo sia politico che religioso, il risultato di un tentativo di adattare le concezioni messianiche dei profeti e della tradizione religiosa ebraica agli ideali della Rivoluzione francese.

Tradizionalmente, però, l’idea messianica nell’ebraismo non era così rosea: si riteneva che la venuta del Messia avrebbe scosso le fondamenta del mondo. Nell’ottica dei profeti e degli aggadisti, la redenzione sarebbe venuta solo dopo uno sconvolgimento rivoluzionario universale, dopo catastrofi senza precedenti in cui la storia sarebbe stata spazzata via e distrutta. La visione ottocentesca è cieca a questi aspetti catastrofici. Guarda solo al progresso verso un’infinita perfezione. Investigando le radici di questa nuova concezione dell’ideale messianico come infinito progresso e infinita perfettibilità dell’uomo, scopriamo che esse, sorprendentemente, traggono origine dalla Qabbalah.

Quando studiamo l’ideale messianico, contemporaneamente studiamo la natura della diaspora, la galut. L’ebreo medioevale concepiva la redenzione come uno stato prodotto dal rovesciamento di tutto ciò che aveva determinato la galut. L’ideale messianico dei profeti della Bibbia e di altre fonti classiche ebraiche non forniva alcun precedente a questa visione. Sia i profeti che gli aggadisti concepivano la redenzione come un nuovo stato del mondo privo di alcuna relazione con alcunché fosse avvenuto in precedenza, non come il prodotto di un processo di purificazione dello stato preesistente. Quindi per loro il mondo irredento e il mondo in corso di redenzione erano separati da un abisso. La storia non era uno sviluppo verso alcuna meta. La storia sarebbe arrivata al suo termine, e il nuovo stato che sarebbe seguito sarebbe stato il risultato di una manifestazione totalmente nuova del divino. Nei profeti questo stadio è chiamato il Giorno del Signore, del tutto dissimile dagli altri giorni: può giungere solo dopo che la vecchia struttura è stata rasa al suolo. Di conseguenza, all’avvento del Giorno del Signore tutto ciò che l’uomo ha costruito nella storia sarà distrutto.

La tradizione classica ebraica ama porre in risalto l’aspetto catastrofico della redenzione. Se diamo un’occhiata al decimo capitolo del trattato Sanhedrin, dove i talmudisti discutono a lungo il problema della redenzione, vediamo che per loro essa significa uno smantellamento, una distruzione, una rivoluzione, un disastro di proporzioni colossali, che in sé non contiene nulla di uno sviluppo o di un progresso. «Il Figlio di Davide [il Messia] arriverà soltanto in una generazione totalmente colpevole o in una generazione totalmente innocente», condizione che è al di là della sfera delle possibilità umane. Oppure «il Figlio di Davide non arriverà fino a quando il regno non sarà corrotto dall’eresia». Queste speranze di redenzione mostrano sempre un’inclinazione fortemente nazionalistica. La liberazione di Israele è l’essenza, ma andrà di pari passo con la liberazione del mondo intero.

È noto che tutta la vasta area delle attese messianiche che appaiono nella tradizione aggadica e nel Midrash non veniva ritenuta degna di un trattamento sistematico da parte dei grandi filosofi e teologi ebrei del Medioevo (con l’unica eccezione di Sa‘adyah Ga’on nel X secolo). Così l’immaginazione popolare e l’impulso religioso furono lasciati liberi di creare i propri sogni ed elaborare i propri pensieri, senza incontrare l’opposizione della parte illuminata della comunità. Nel Medioevo si sviluppò tutta una letteratura popolare che profetizzava la guerra apocalittica finale che avrebbe posto termine alla storia, e dipingeva a colori vivaci la redenzione come l’evento che avrebbe coronato la saga della nazione e della comunità. In questo modo, l’aspettativa messianica, tenuta in scarsa considerazione dall’aristocrazia intellettuale, mise radici fra le masse popolari, distogliendo l’attenzione dagli sforzi di risolvere i problemi del presente e volgendola al regno utopico del Giorno del Signore.

I primi cabalisti, dal XII secolo all’espulsione dalla Spagna, avvenuta nel 1492, avevano poco da aggiungere ai miti popolari sulla redenzione, poiché il loro interesse era rivolto non alla Fine dei Giorni ma ai primi giorni della creazione. Speravano in una redenzione specifica e mistica per ciascun individuo, da raggiungere fuggendo dallo scompiglio, dalla perplessità, dal caos e dalle tempeste del corso effettivo della storia, e risalendo agli inizi della storia.

Questi primi cabalisti attribuivano particolare importanza a domande come: «Qual è la natura della creazione?» e: «Da dove veniamo?». Infatti essi credevano che conoscere la scala dell’ascesa o, più precisamente, la scala della discesa, la serie dei gradini che connettono tutte le creature, dalla fonte della creazione, da Dio, la radice di tutte le radici, giù fino alla nostra angusta esistenza – conoscere il segreto del nostro inizio, l’origine delle imperfezioni di questo mondo distorto e oscuro in cui siamo arenati, con tutte le tempeste e gli scompigli e le afflizioni in esso contenuti –, che conoscere tutto questo avrebbe potuto indicarci la via per tornare alla nostra casa interiore. Proprio come siamo discesi, come ogni creatura discende seguendo un suo cammino particolare, così essa è anche capace di ascendere, e questa ascesa mira a un ritorno all’origine della creazione e non alla sua fine. Qui, dunque, abbiamo una visione della redenzione in cui le fondamenta del mondo non sono scosse da grandi tumulti messianici. Invece, è il mondo stesso a essere rifiutato salendo i gradini della scala che ascendono fino ai palazzi celesti nel grembo di Dio. Il cabalista preparato a seguire questo percorso dell’interiorità sarebbe stato liberato e salvato dalla ricerca, nel profondo della propria anima, di una via per tornare a Dio, alla fonte da cui era stato tratto.

Il capolavoro della Qabbalah spagnola è lo Zohar, scritto nell’ultimo quarto del XIII secolo in Castiglia, la regione centrale della Spagna. In questo libro Qabbalah e messianismo non costituiscono ancora un tutto veramente organico. Riguardo alla redenzione troviamo passi che esprimono in forme nuove e con l’aggiunta di dettagli interessanti, ma senza cambiamenti essenziali, le profezie sulla Fine riportate nella letteratura popolare apocalittica di cui si è detto in precedenza.

Lo Zohar segue l’Aggadah talmudica nel considerare la redenzione non come il risultato di un progresso interiore nel mondo storico, bensì come un miracolo soprannaturale che comporta la graduale illuminazione del mondo grazie alla luce del Messia. Questa comincia con un pallido bagliore e termina con la piena rivelazione: la luce del Messia.

All’epoca in cui il Santo, sia Egli benedetto, raddrizzerà Israele e lo farà uscire dalla galut, Egli aprirà loro una piccola e angusta finestra di luce, e poi ne aprirà un’altra che sarà più grande, fino a che Egli non aprirà loro le porte lassù alle quattro direzioni dell’universo. Così sarà riguardo a tutto ciò che il Santo, sia Egli benedetto, fa per Israele e per i giusti fra loro, così sarà e non in un solo istante, poiché neppure la guarigione arriva al malato in un solo istante, ma gradualmente, fino a che non recupera le forze.

I gentili (che sono chiamati Esaù o Edom) subiranno però un destino opposto. Essi hanno ricevuto la loro luce in questo mondo in un sol colpo, ma essa si allontanerà da loro gradualmente fino a che Israele non diverrà forte e li distruggerà. E quando lo spirito dell’impurità svanirà dal mondo e la luce divina splenderà su Israele senza impedimento o ostacolo, tutte le cose torneranno all’ordine che è loro proprio, allo stato di perfezione presente nel giardino di Eden prima del peccato di Adamo. I mondi saranno uniti l’uno all’altro e nulla separerà più il Creatore dalla creatura. Tutto si eleverà grazie ad ascese dello spirito e le creature saranno purificate fino a vedere la Shekhinah «occhio a occhio».

Nell’ultima sezione dello Zohar, questa profezia è integrata da un’altra che predice la liberazione d’Israele da tutte le limitazioni che il giogo della Torah le ha imposto nella galut. L’autore esprime la sua visione usando le immagini dell’Albero della Vita e dell’Albero della Conoscenza (da cui dipende la morte). Da che Adamo ha peccato, il mondo è stato governato non dall’Albero della Vita (come dovrebbe essere), ma dall’Albero della Conoscenza. L’Albero della Vita è interamente ed esclusivamente santo, non contaminato dal male, senza adulterazioni o impurità o morte o limitazioni. L’Albero della Conoscenza, invece, contiene sia il bene che il male, la purezza e l’impurità, la virtù e il vizio, e pertanto sotto il suo governo ci sono cose proibite e cose permesse, cose adatte a essere mangiate e cose che non lo sono, cose pure e cose impure. In un mondo irredento la Torah è rivelata in forma di comandamenti positivi e negativi e di tutto ciò che questi comportano, ma nel futuro redento l’impurità, l’inidoneità al consumo e la morte saranno aboliti. In un mondo irredento la Torah dev’essere interpretata in molti modi: letterale, allegorico, mistico; ma nel futuro redento sarà rivelata nella pura spiritualità dell’Albero della Vita, senza la «veste» assunta dopo il peccato di Adamo. Sarà completamente interiore, interamente santa.

In questa concezione, la redenzione diventa una rivoluzione spirituale che disvelerà il significato mistico, la «vera interpretazione» della Torah. Così un’utopia mistica prende il posto dell’utopia secolare nazionale degli autori più antichi. Ma l’autore di queste ultime sezioni conferisce particolare risalto all’opposizione fra la Torah della galut e la Torah della redenzione, senza accennare ad alcuna transizione fra loro. I due stati del mondo erano ancora separati da un abisso che la storia non avrebbe mai potuto colmare.

Gli sforzi dei cabalisti spagnoli sono stati rivolti a una nuova interpretazione dell’ebraismo. Essi riesaminarono la vita ebraica, la vita dei comandamenti, il mondo della Halakhah non meno di quello dell’Aggadah, scavando nel mistero della Torah, delle opere dell’uomo in questo mondo, della sua relazione con Dio. Le loro convinzioni riguardo a tali questioni non avevano alcuna connessione vitale con il tema della redenzione. Ma subito dopo l’espulsione dalla Spagna, la Qabbalah subì un netto cambiamento che ebbe enormi conseguenze per la storia ebraica in generale, ancor più che per la Qabbalah stessa. Proprio come la Qabbalah, nel XIII secolo, cercava di interpretare l’ebraismo in un modo che consentisse a un uomo del XIII o XIV secolo di essere un ebreo in linea con le concezioni religiose dell’epoca, così, dopo l’espulsione dalla Spagna, la Qabbalah si sforzò di fornire una risposta alle domande sorte in seguito a un avvenimento che aveva sradicato uno dei rami principali dell’ebraismo.

Ma il tentativo di reinterpretare la natura dell’universo e dell’ebraismo alla luce di questa esperienza non fu fatto negli anni immediatamente successivi alla catastrofe del 1492. I cabalisti, come tutti gli ebrei in generale, credevano che la redenzione completa fosse imminente. Nell’espulsione dalla Spagna videro l’inizio dei dolori del parto del Messia, l’inizio di quei disastri e di quelle terribili afflizioni che avrebbero posto fine alla storia e inaugurato la redenzione. Non c’era bisogno di nuovi concetti e princìpi religiosi, la fine era già arrivata. I cancelli della redenzione potevano aprirsi in qualunque ora, in qualunque momento, e i cuori degli uomini dovevano venire ora risvegliati per essere pronti a incontrare il futuro. Per lo spazio di una generazione, durante i quarant’anni successivi all’espulsione dalla Spagna, troviamo una profonda eccitazione e tensione messianica, intensa quasi quanto prima dell’esplosione del movimento sabbatiano. I princìpi tradizionali rimasero intoccati; gli insegnamenti della prima Qabbalah continuarono senza cambiamenti radicali; la cosa importante adesso era la propaganda, la diffusione del messaggio apocalittico.

Il principale propagatore di questo intenso messianismo nella generazione successiva all’espulsione dalla Spagna fu Avraham ben Eli‘ezer ha-Lewi, un rabbino spagnolo che viveva a Gerusalemme e che fu uno dei più grandi cabalisti dei suoi tempi. Sulla base di tutta letteratura ebraica, dal libro di Daniele fino allo Zohar e agli scritti dei saggi medioevali, egli dimostrò che il travaglio della redenzione era già cominciato nel 1492 e sarebbe finito in piena gloria nel 1531. Abbiamo anche altri libri ingegnosi risalenti allo stesso periodo. L’insegnamento di uno di questi, il Kaf ha-qeṭoret (Il cucchiaio d’incenso), commento anonimo al libro dei Salmi (conservatosi solo in forma manoscritta), suona come segue:

Secondo le parole dei saggi, la Torah ha settanta aspetti, e ci sono settanta aspetti per ciascun singolo versetto; in verità, quindi, gli aspetti sono infiniti. In ciascuna generazione uno di questi aspetti viene rivelato, e così nella nostra generazione l’aspetto che la Torah ci rivela riguarda le questioni della redenzione. Ciascun singolo versetto può essere inteso e spiegato con riferimento alla redenzione.

Stando a questo autore, ogni singolo versetto nel libro dei Salmi contiene un riferimento all’imminente redenzione, ed egli dichiara che tutti i componimenti poetici dei Salmi sono canti di battaglia della guerra apocalittica finale. Il fatto che un ebreo devoto consideri i salmi come inni marziali dimostra la profondità del nuovo stato d’animo che si era impadronito degli ebrei dopo l’espulsione. Ma il sottinteso è ancora quello che le nozioni di galut e di redenzione non richiedono una nuova interpretazione.

Tuttavia la redenzione non arrivò; giunsero invece solo disastri e patimenti e tutte queste potenti aspettative furono frustrate. Nella misura in cui tale speranza venne disattesa nel mondo esterno, gli effetti spirituali dell’espulsione dalla Spagna cercarono espressione nei più profondi recessi dell’anima. In un certo senso la gravità dell’evento penetrò gradualmente dagli strati esterni dell’uomo agli strati più profondi dell’anima, gli strati più fecondi, in cui si formano nuove visioni e nuovi simboli. La profezia della fine imminente impallidì e gli uomini cominciarono a ripensare la questione in maniera nuova. Solo allora iniziò un movimento che comportò la creazione di un nuovo clima religioso intorno all’idea di galut e di redenzione.

Quella che adesso ebbe luogo può essere definita come la confluenza di due forze rimaste finora separate, il tema messianico e la Qabbalah, in un complesso unitario. In altre parole l’idea messianica divenne un elemento fecondo nelle speculazioni degli stessi mistici, che cominciarono a cercare spiegazioni dell’espulsione dalla Spagna: che cosa era successo? Che cosa aveva causato tale afflizione e sofferenza? Qual è la natura di questo tetro mondo della galut? Cercarono una risposta a tali questioni nei termini della loro prospettiva mistica fondamentale, la quale vedeva nell’essere esteriore segni e simboli dell’essere interiore che parla attraverso di esso. E, collegando le nozioni di galut e redenzione con la questione centrale dell’essenza dell’universo, essi riuscirono a elaborare un sistema con cui trasformarono l’esilio del popolo d’Israele in un esilio del mondo intero e la redenzione del loro popolo in una redenzione cosmica, universale.

Il risultato fu che la Qabbalah riuscì ad affermarsi tra le grandi masse del popolo ebraico. Questo è un fenomeno che ha sempre lasciato sconcertati gli studiosi. Come poté un movimento così mistico, individualistico e aristocratico, qual è la Qabbalah, diventare una forza sociale e storica, una potenza dinamica nella storia? Almeno parte della spiegazione risiede nel fatto che la Qabbalah del XVI secolo trovò nell’espulsione stessa un modo per rispondere all’interrogativo più pressante che assillava gli ebrei di quel periodo: la natura della galut e la natura della redenzione.

La risposta fu formulata nel corso di un’unica generazione, dal 1540 al 1580, da un’esigua ma assai attiva congregazione di santi, devoti, sacerdoti e riformatori nella piccola cittadina palestinese di Safed. Poiché la questione della galut e della redenzione era in ogni luogo spinosa in pari misura e dato che le varie comunità ebraiche sparse per il mondo erano ancora più o meno omogenee, la risposta definitiva data a Safed poté essere accettata e sentita come adeguata in tutte le parti della diaspora.

Dei molti sistemi formulati a Safed, quello più rispettato e che assurse a una posizione di autorevolezza, sia fra i mistici che fra le masse, fu la Qabbalah di Rabbi Yitzḥaq Luria Ashkenazi (1534-1572), chiamato poi Ari (il leone).

Le concezioni fondamentali di Ari hanno un carattere icastico e fanno presa sull’immaginazione e, sebbene la loro formulazione originaria fosse abbastanza semplice, si prestavano a un’interpretazione assai sottile e profonda. La Qabbalah di Ari vedeva la galut come uno stato terribile e crudele che pervadeva e avvelenava la vita intera degli ebrei, ma anche come la condizione dell’universo nella sua totalità, anche della divinità. Questa è un’idea estremamente audace, e i cabalisti luriani, quando cominciarono a discuterla, rabbrividirono davanti alla loro stessa temerarietà, schermendosi dietro espressioni attenuative del tipo si potrebbe supporre, per così dire, a voler sbalordire. Tuttavia l’idea fu sviluppata attraverso tre idee centrali che formano l’impalcatura del pensiero luriano: limitazione, distruzione, riparazione.

Secondo Ari e la sua scuola, l’universo è stato creato da un’azione di cui in generale gli antichi erano ignari. Dio non si è rivelato apertamente nella creazione, ma ha confinato e nascosto Sé stesso, e facendo ciò ha consentito al mondo di rivelarsi. Poi è venuto l’atto secondo, la formazione delle emanazioni universali, le creazioni dei mondi, la rivelazione del divino come divinità dell’umanità, come Creatore, come il Dio d’Israele.

La fase iniziale di nascondimento ha molte implicazioni. C’è un ritrarsi e un limitarsi volontario, il che è legato alla qualità della severità e del rigore in Dio, in quanto ogni concentrazione e limitazione implica l’attivazione di questa qualità. C’è una spietatezza nei confronti di Sé stesso, in quanto Egli ha esiliato Sé stesso dall’infinità senza limiti relegando Sé stesso a un’infinità più concentrata. C’è una profonda galut interiore, non la galut di una delle creature, ma di Dio stesso, che ha limitato Sé stesso e così facendo ha lasciato spazio all’universo. In questo consiste il concetto luriano di limitazione o concentrazione (tzimtzum), che soppiantò l’idea più semplice di creazione sostenuta dai cabalisti spagnoli.

All’interrogativo sulla nascita del mondo, i cabalisti spagnoli avevano risposto enunciando la loro dottrina delle emanazioni. Dall’abbondanza del Suo essere, dal tesoro racchiuso in Lui, Dio ha “emanato” le sefirot, queste luci divine, queste modalità e fasi attraverso cui Egli manifesta Sé stesso esteriormente. La Sua luce risplendente emana passando di livello in livello e la luce si diffonde a sfere sempre più grandi e diventa sempre più spessa. Mediante la discesa delle luci dalla loro fonte infinita sono stati emanati e creati tutti i mondi; il nostro mondo non è che l’ultimo guscio esterno degli strati della gloria divina. Il processo della creazione è quindi una sorta di rivelazione progressiva.

Nel sistema di Ari, la nozione di concentrazione aggiunge una complessità maggiore. Affinché una cosa diversa da Dio possa venire in essere, Dio deve necessariamente ritrarsi in Sé stesso. Soltanto dopo Egli emette raggi di luce nel vuoto della limitazione e costruisce il nostro mondo. Inoltre, in ciascuna fase c’è bisogno sia della forza della limitazione che di quella dell’emanazione. Senza la limitazione ogni cosa ritornerebbe al divino, e senza l’emanazione nulla verrebbe all’esistenza. Niente di ciò che esiste può essere uniforme, ogni cosa ha questa natura fondamentale bifronte: la forza limitante e la forza emanatrice, ritrazione ed espansione. Solo il concorso delle due diverse spinte può produrre l’essere.

Il concetto di limitazione sembra paradossale, ma ha una sua vitalità, esprime la nozione di un Dio vivente, un Dio pensato come organismo vivente. Ma consideriamo ora il seguito di questo processo.

Dio si è rivelato nelle Sue potenze e nei Suoi vari attributi (grazia e giustizia, ecc.). Per mezzo di queste potenze con cui ha voluto produrre la creazione, Egli ha formato dei “vasi” destinati a servire alla manifestazione del Suo stesso essere. (Una regola vincolante vuole che qualunque cosa desideri agire o manifestare sé stessa necessita di vesti e contenitori, in quanto senza di essi ritornerebbe all’infinito privo di differenziazioni e di livelli). La luce divina penetrò in questi vasi per assumere forme appropriate alle loro funzioni nella creazione, ma i vasi non riuscirono a contenere la luce e così si ruppero. Questa è la fase che i cabalisti chiamano rottura dei vasi. E quali furono le conseguenze della rottura dei vasi? La luce si disperse. Una gran parte di essa tornò alla sua origine; altre parti, o scintille, caddero giù e si sparpagliarono; altre ancora andarono verso l’alto.

Questa “rottura” introduce un aspetto drammatico nel processo della creazione ed è in grado di spiegare la galut. Da allora nulla è perfetto. La luce divina che avrebbe dovuto sussistere in forme specifiche e in luoghi ad essa destinati fin dall’inizio non è più al posto giusto perché i vasi si sono rotti, e a seguito di ciò tutte le cose sono andate storte. Non c’è nulla che non sia stato danneggiato dalla rottura. Nulla è al suo posto: ogni cosa è o sopra o sotto, ma non dove dovrebbe essere. In altre parole, l’intero essere è nella galut.

E questo non è tutto. Nel profondo abisso delle forze del male, delle forze dell’oscurità e dell’impurità che i cabalisti chiamano gusci o scorie, caddero, in seguito alla rottura dei vasi, forze di santità, scintille di luce divina. Quindi esiste una galut del divino stesso, delle scintille della Shekhinah: «Queste scintille di santità sono legate con catene d’acciaio nelle profondità dei gusci e aspirano ardentemente a risalire alla loro origine, ma non possono riuscirci fino a che non ricevano aiuto». Così dice Rabbi Ḥayyim Vital, discepolo di Luria.

Abbiamo qui un’immagine cosmica della galut: non soltanto la galut del popolo d’Israele, ma la galut della Shekhinah al cominciamento stesso della sua esistenza. Tutto ciò che accade nel mondo è soltanto un’espressione di questa galut primordiale e fondamentale. L’intera esistenza, incluso Dio, per così dire, vive nella galut. Tale è lo stato della creazione dopo la rottura dei vasi.

Poi viene la riparazione, la terza articolazione del grande processo: la rottura può essere sanata. Il difetto primordiale deve essere corretto in modo che tutte le cose possano fare ritorno al posto giusto, alla loro posizione originale. Uomo e Dio sono compagni in quest’impresa. Dopo la rottura originaria Dio ha dato inizio al processo di riparazione, ma ne ha lasciato il completamento all’uomo. Se Adamo non avesse peccato, il mondo sarebbe entrato nello stato messianico il primo Shabbat dopo la creazione, e non ci sarebbe stato alcun processo storico. Il peccato di Adamo ha riportato l’universo, che era stato quasi risanato, al suo precedente stato frammentato. Ciò che è accaduto alla rottura dei vasi successe di nuovo. I mondi decaddero di nuovo. Adamo, che in origine era un essere cosmico, spirituale e superno, un’anima che conteneva tutte le anime, cadde dalla sua posizione, dopo di che la luce divina della sua anima si disperse. Da quel momento anche la luce dell’anima è rimasta chiusa in una prigione insieme alle scintille della Shekhinah condividendo un comune destino. L’intero essere fu di nuovo disperso nella galut. In tutta quanta la creazione c’è imperfezione, difetto, galut.

La galut di Israele è solo l’espressione – lampante, concreta ed estremamente crudele – di questa fase del mondo prima della riparazione e della redenzione. La difficile situazione di Israele, quindi, non è un accidente storico, ma qualcosa di intrinseco all’essere del mondo, e sta a Israele riparare il difetto originario. Emendando sé stessi, gli ebrei possono emendare anche il mondo, sia nei suoi aspetti visibili che in quelli invisibili. Come lo si può fare? Attraverso la Torah e i suoi comandamenti. Questi sono i rimedi segreti che, grazie alla loro azione spirituale, fanno sì che le cose tornino al posto loro destinato, liberano la luce divina imprigionata e la innalzano al livello che le è proprio, affrancano le scintille della Shekhinah dal dominio delle scorie, riportano la figura del Creatore alla Sua statura piena, che ora è, per così dire, manchevole quanto a perfezione, a causa della galut della Shekhinah. Mediante il “discernimento” del bene e del male, viene fissato un confine decisivo tra le aree di ciò che è santo e di ciò che è impuro, che all’epoca della rottura, e poi di nuovo a seguito del peccato di Adamo, si sono mescolati. La galut è quindi una missione volta all’emendazione e chiarificazione. I figli d’Israele fanno salire le scintille non solamente dai luoghi che calpestano con i piedi nella loro galut, ma anche, con le loro azioni, dal cosmo stesso.

Ogni uomo emenda la propria anima e, attraverso il processo di trasmigrazione, anche quella del suo prossimo. Questo è un elemento cruciale nella dottrina della “selezione” del bene e della sua liberazione dall’esilio nelle sfere del male. La fede nella trasmigrazione si diffuse come credenza popolare solo in seguito al movimento originatosi da Safed a partire dalla metà del XVI secolo. È facile comprenderne i motivi. Nel sistema dei nuovi cabalisti, la trasmigrazione non era un’appendice, ma un elemento fondamentale indisgiungibile. Anche la trasmigrazione simboleggiava lo stato del mondo non emendato, la confusione degli ordini della creazione conseguente al peccato di Adamo. Come i corpi sono nella galut, così esiste una galut interiore per le anime. E la galut delle anime è la trasmigrazione. Yesha‘yah Horovitz, uno dei grandi cabalisti di questa scuola, scrive: «Nella benedizione: “Fa’ risuonare un grande shofar per la nostra liberazione”, preghiamo per la raccolta delle anime disperse ai quattro angoli della terra nelle loro trasmigrazioni […] e anche in: “Raccogli i nostri dispersi fra le nazioni”; questi si applicano alla raccolta della galut delle anime che sono state disperse» . Ogni essere vivente è soggetto alla legge della trasmigrazione da forma a forma. Non esiste alcun essere, nemmeno il più infimo, che non possa fungere da prigione alle scintille delle anime esiliate che cercano il ritorno dalla loro galut.

In questo sistema, la redenzione è sinonimo di emendazione o restaurazione. Dopo che abbiamo adempiuto i nostri doveri e che l’emendazione è completata, e che tutte le cose sono tornate a occupare il posto loro proprio nello schema universale, la redenzione arriverà spontaneamente. Redenzione significa semplicemente lo stato perfetto, un mondo senza difetti e armonioso in cui ogni cosa occupa il posto giusto. L’ideale messianico, l’ideale della redenzione, riceve quindi un aspetto totalmente nuovo. Tutti noi lavoriamo, o perlomeno dovremmo lavorare, per l’emendamento del mondo e per la “selezione” del bene e del male. Questo fornisce un’ideologia ai comandamenti e alla vita della Halakhah, un’ideologia che collega l’ebraismo tradizionale alle forze nascoste che operano nel mondo in generale. Un uomo che adempie un comandamento non sta più soltanto osservando un comandamento: la sua azione ha un significato universale, egli sta emendando qualcosa.

Questa concezione della redenzione non è più catastrofica: quando il dovere sarà compiuto, il Figlio di Davide, il Messia, verrà spontaneamente, poiché la sua comparsa alla Fine dei Giorni è solo un simbolo del completamento di un processo, una testimonianza che il mondo è stato davvero emendato. Diviene così possibile evitare i dolori del parto del Messia. La transizione dallo stato d’imperfezione allo stato di perfezione (che può comunque essere molto difficile) avverrà senza rivoluzioni e disastri e grandi afflizioni.

Qui, per la prima volta, abbiamo una connessione organica tra lo stato della redenzione e lo stato precedente. La redenzione appare ora non come l’opposto di ciò che è accaduto prima, ma come la conseguenza logica del processo storico. Siamo tutti coinvolti nella medesima impresa messianica e siamo tutti chiamati a fare la nostra parte.

Non sarà il Messia a portare la redenzione; piuttosto, egli simboleggia l’avvento della redenzione, il completamento del compito di emendazione. Non sorprende dunque che nella letteratura luriana venga data scarsa importanza alla personalità umana del Messia, poiché i cabalisti non avevano particolare bisogno di un Messia personale ma, come tutti i “mistici”, essi erano al contempo conservatori e radicali. Poiché la tradizione parlava di un Messia personale, essi lo accettarono pur rivoluzionando il contenuto dell’idea tradizionale.

Nella nuova Qabbalah abbiamo dunque un insieme completo di concezioni che rivela una sua logica interna. La galut e la redenzione non sono manifestazioni storiche specifiche di Israele, ma manifestazioni di tutto l’essere, che includono anche il mistero della divinità stessa. Il Messia diventa qui l’intero popolo d’Israele, anziché essere un redentore individuale: è l’intero popolo d’Israele che si prepara a correggere il difetto originario. La redenzione è una conseguenza di antecedenti e non la conseguenza di una rivoluzione e, sebbene la redenzione di Israele, in senso nazionale e secolare, fosse rimasta un ideale assai vivo, quest’ultimo fu ampliato e approfondito divenendo il simbolo della redenzione del mondo intero, del ritorno dell’universo allo stato cui sarebbe dovuto pervenire quando il Creatore ne ideò la creazione.

La nuova Qabbalah ebbe una funzione molto importante nel restituire agli ebrei il senso di responsabilità e la dignità. Ora potevano considerare il proprio stato, sia nella galut che nella speranza messianica, come simbolo di un profondo mistero che arrivava a lambire Dio stesso, e potevano collegare le esperienze fondamentali della loro vita alla totalità dell’essere cosmico e alla sua integrazione. Essi non vedevano alcuna contraddizione fra l’aspetto nazionalistico e secolare della redenzione e il suo aspetto mistico e universalistico. Era convinzione dei cabalisti che il primo servisse ad adombrare e simboleggiare il secondo. L’angoscia dell’esperienza storica della galut non era oscurata da questa nuova interpretazione; al contrario, si può dire che da essa sia stata posta in evidenza e acutizzata, ma ora si aggiungeva la convinzione che il segreto dell’angoscia di Israele avesse le sue radici nelle fonti nascoste della linfa vitale di tutta la creazione.

 

Tratto da G. Sholem, L’idea messianica nell’ebraismo e altri saggi sulla spiritualità ebraica, Milano 2008, 56-71 (con qualche lieve adattamento tipografico)


1 commento:

  1. Naturalmente l'autore (noto cabalista) omette di evidenziare gli aspetti violenti della presunta "liberazione delle scintille divine" imprigionate nel mondo materiale, che a tal fine deve essere distrutto e rigenerato; non si tratta di un processo puramente interiore e spirituale.
    Sholem "dimentica" altresì di informarci che il perfetto adempimento della "Torah", secondo le dottrine cabalistiche, consiste nel totale superamento della distinzione tra bene e male e si ottiene per mezzo degli atti più riprovevoli che un essere umano possa compiere.
    Queste assurdità, comunque, permettono di comprendere le disposizioni mentali di coloro che hanno orchestrato il conflitto in Medio Oriente, benché vadano radicalmente rigettate sia per il loro impianto panteistico, sia per la pretesa di autoredenzione e di redenzione del cosmo rivendicata da un popolo che non è più il popolo eletto e neppure un popolo "tout court".

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