Qui flent,
tamquam non flentes (1 Cor 7, 30).
La brevità della vita e l’imminenza del giudizio spingono il
cristiano – e ogni uomo ragionevole – al distacco verso le realtà di questo
mondo passeggero, dove tutto, prima o poi, finisce. Per questo san Paolo esorta
i fedeli di Corinto a regolarsi in base alla provvisorietà e relatività delle
circostanze in cui vivono (che siano gradite o meno) e delle opportunità che le
varie situazioni offrono o tolgono. Anche chi è afflitto, di conseguenza, deve
comportarsi come se non lo fosse, visto che la causa della sua afflizione è
transitoria; ciò che conta è il fine ultimo dell’esistenza, ossia l’eterno
godimento di Dio, e il discernimento delle scelte necessarie per meritarlo.
Alle pene di quaggiù, sopportate per amore Suo, è riservata una ricompensa non
paragonabile ad esse (cf. Rm 8, 18).
I limiti della pazienza
Ogni autentica virtù si colloca nel mezzo tra due estremi. La
pazienza, che ci fa sostenere i mali presenti, deve rimanere equidistante dalla
collera dell’insofferente e dall’acquiescenza dell’ignavo. È la prudenza la
virtù che ci consente di riconoscere fin dove è opportuno sopportare e a qual
punto occorre invece intervenire. Dato che tutte le virtù cristiane sono
radicate nella carità e da essa legate e animate, il criterio che regola la
prudenza è lo zelo per l’onore divino e la ricerca del vero bene del prossimo.
Dobbiamo perciò esaminare in che misura la sopportazione delle situazione
avverse torni a gloria di Dio e a vantaggio degli altri, in modo che, a
dispetto delle buone intenzioni, essa non finisca con l’essere dannosa,
riuscendo contraddittoria.
È indubbio che mantenere un completo silenzio su errori e misfatti
di coloro che guidano la Chiesa sia nocivo; al tempo stesso è pericoloso
insistervi troppo, cosa che provocherebbe lo scandalo dei semplici. Su queste
pagine si è sempre cercato di mantenere, a questo proposito, il giusto
equilibrio, rifuggendo dagli eccessi e mirando al progresso spirituale dei lettori;
ciò non implica che ci si sia sempre riusciti, dato che siamo tutti fallibili e
bisognosi di luce dall’alto, mentre nessuno è esente da oscillazioni dovute
alle circostanze. L’importante è essere disposti a rivedere, integrare o
correggere le proprie posizioni senza assolutizzarle, ma conformandole sempre
più alla verità: la norma della conoscenza è l’adaequatio mentis ad rem, l’adeguamento dell’intelletto alla realtà.
Anche nella Chiesa, purtroppo, si sconta l’effetto della
penetrazione nella cultura contemporanea dell’agnosticismo e del liberalismo,
severamente condannati dal Magistero, soprattutto con il Sillabo del
beato Pio IX. Anche quando il primo non è formulato in modo sistematico, uno
scetticismo di fondo pervade le menti degli individui, mentre la mentalità
democraticista ha roso i fondamenti di ogni autorità. Così ognuno è spinto a
darsi risposte da solo e a prender decisioni del tutto autonome, salvo poi
sottomettersi ciecamente a qualsiasi abuso di potere, a torto legittimato come
espressione della volontà popolare. Il risultato è che si obbedisce a
ordini cui si deve disobbedire e ci si ribella ai superiori in ciò che, invece,
è obbligatorio.
Inversione dell’ordine
Il punto estremo di questa deriva tipicamente moderna è il rifiuto
dell’obbedienza legittima in nome della difesa della fede o, addirittura, la
pretesa di negare la legittimità dell’autorità costituita sulla base di
disquisizioni formalistiche e di un’inesistente facoltà di dirimere questioni
del genere. Tale risultato è perfettamente consequenziale a false premesse e a
un modo di procedere capzioso che trae conclusioni forzate in vista di un
obiettivo prestabilito: partendo dalla presunzione di dover intervenire in
ambiti che superano le attribuzioni del soggetto, si piega il discorso in
funzione di ciò che si vuol dimostrare, con deduzioni deboli e indebiti
concatenamenti. Questo modo di procedere non è rispettoso né della verità né
della coscienza di chi ascolta.
Non ci si può attribuire da sé una potestà che non sia stata
legittimamente conferita; senza questo principio, tanto fondamentale quanto
evidente, salta ogni ordine, civile ed ecclesiastico, e si cade nell’anarchia. Gli
attuali fomentatori di divisione – che ne siano consapevoli o meno – soffrono di
quell’anarchismo individualistico che abbiamo ereditato dal Sessantotto, ma che
è diametralmente opposto allo spirito cristiano; il suo marchio di fabbrica è
tipicamente satanico: Non serviam
(Ger 2, 20). Lo stesso termine che, riferito a uomini, designa il rapporto di
schiavitù, riferito a Dio indica il culto che Gli è dovuto e il cui rifiuto è la
radice della ribellione di Lucifero come di ogni ribellione, da lui istigata,
all’ordine stabilito dal Creatore.
Correggere chi detiene l’autorità, con il dovuto rispetto e la
scienza necessaria, è certamente lecito, ma non equivale a demolirla. L’ossequio
dovuto all’autorità, all’opposto, non esige l’ottemperanza di qualunque
comando, qualora sia contrario alla legge o esuli dalle sue competenze. Intimare
un trattamento sanitario non rientra nelle attribuzioni di un superiore
ecclesiastico, fosse pure il Papa; il farlo costituisce un grave abuso di potere
e, se il farmaco è stato ottenuto in modo
immorale, è contrario alla legge morale. Se poi ad essere imposta – o anche solo raccomandata – è l’assunzione
di un ritrovato sperimentale spacciato per vaccino di cui si ignorano la reale
efficacia e gli effetti avversi, siamo in presenza di un vero e proprio
crimine.
Poiché la campagna pubblicitaria messa in atto da Jorge Mario
Bergoglio a favore della cosiddetta vaccinazione ha influenzato miliardi di
persone, convincendole a rovinarsi la salute con un liquame altamente tossico
che sta causando uno sterminio senza precedenti, è evidente che la sua
coscienza si è caricata di una colpa di dimensioni gigantesche che reclama una
pena proporzionata. Finché però non sia stato dichiarato dalla competente autorità che non detiene legittimamente la sua carica, nessun tribunale umano lo può
giudicare, dato che, lo voglia o no, è il Vicario di Gesù Cristo sulla terra.
Chi ha la fede sa tuttavia che neppure lui potrà sfuggire all’infallibile
giustizia divina; anzi, un giudizio più severo attende chi sta più in alto (cf.
Sap 6, 5-6).
Saper aspettare
Vivere con fede non significa aver la testa zeppa di convinzioni
astratte e comportarsi poi secondo la modalità mondana, a colpi di petizioni,
dichiarazioni e appelli alla rivolta, bensì contemplare le situazioni
contingenti dal punto di osservazione dell’eternità. Ogni prova, prima o poi,
ha termine; ogni realtà umana è destinata a passare. Chi si affligge da
cristiano non lo fa come se la causa della sua afflizione dovesse permanere per
sempre: piange, sì, ma come chi non piange. In altre parole, non è insensibile
al male, ma sa che esso non ha sostanza e non è affatto eterno; di più, è
sicuro che la Provvidenza ne trarrà un bene maggiore, in vista del quale lo ha
permesso. Perciò non si tormenta fino a perder la pace interiore, ma la custodisce
gelosamente dalle tentazioni sotto apparenza di bene.
Questo non è un invito all’indifferenza o all’indolenza, come più volte già asserito; è piuttosto un richiamo – l’ennesimo – ad adempiere la volontà di Dio nella presente congiuntura, stando ognuno al suo posto, pregando con fiducia e perseveranza, onorando i doveri del proprio stato di vita e, in tutto ciò, offrendosi al Padre in unione alla Vittima santa e immacolata, che ogni giorno si immola sugli altari. Per poter efficacemente realizzare questo compito, bisogna tappare gli orecchi ad ogni discorso che, esplicitamente o implicitamente, neghi l’indefettibilità della Chiesa e l’onnipotente guida del suo Sposo, che non dorme mai e il cui braccio non si è accorciato. Se davvero vogliamo difendere la fede, applichiamola anzitutto a noi stessi, piuttosto che esporci al pericolo prossimo di perderla col metterci al di sopra dell'autorità divina.