Dal
primo colloquio (3 Agosto 1666)
Bisogna
nutrire la propria anima di un’alta idea di Dio, per poter gustare la gran
gioia di sentirsi tutti Suoi. Bisogna vivificare la nostra fede; poiché è
deplorevole che ne abbiamo così poca da non poterla prendere come regola fondamentale
di condotta e da sentire il bisogno di baloccarci con piccole devozioni che
mutano ogni giorno: mentre questa vita della fede è lo spirito stesso della
Chiesa. Bisogna darsi interamente e con puro abbandono a Dio, per il
temporale e per lo spirituale, e poi porre la nostra gioia nell’eseguire la Sua
volontà, ci conduca Egli per le sofferenze o per le consolazioni, che debbono
essere tutte ugualmente accette a Colui che si abbandona completamente al
beneplacito divino. Occorre essere fedeli nelle aridità con le quali Dio prova
il nostro amore per Lui: appunto allora si compiono quegli atti di rassegnazione
e di abbandono, uno solo dei quali fa spesso percorrere tanto cammino.
Egli
non si meravigliava delle miserie e dei peccati di cui sentiva parlare ogni
giorno, ma anzi era sorpreso che non ce ne fossero anche di più, vista la
malizia di cui il peccatore è capace. Si limitava a pregare per il peccatore
senza affliggersi troppo, ben sapendo che Dio poteva rimediare a tutto quando
voleva. Mi disse pure che, per arrivare ad abbandonarsi in Dio nella misura che
Egli desidera da noi, occorre vegliare attentamente sui moti della natura, che
si mescolano facilmente così nelle cose spirituali come nelle più grossolane:
che Dio dà i lumi di questa grazia a quelli che desiderano veramente essere
suoi. Se avevo questa intenzione, di darmi, cioè, interamente a Dio, potevo
tornare a consultarlo quando volevo, senza timore di dargli disturbo,
altrimenti non andassi più a trovarlo.
Dal
secondo colloquio (28 Settembre 1666)
In
quanto a lui si era sempre lasciato guidare dall’amore, senza alcun interesse e
senza preoccuparsi se si sarebbe perduto o salvato. Ma, avendo preso per fine
di tutte le sue azioni l’amore di Dio, se ne era trovato bene ed era contento
quando poteva raccattare una pagliuzza da terra per amore di Dio, cerando
unicamente Lui solo e non altra cosa, nemmeno i Suoi doni. Dio ricompensa così
prontamente e magnificamente tutto quel che si fa per Lui che egli aveva
qualche volta desiderato potergli nascondere quello che faceva per Lui, per
potere, non ricevendo ricompensa alcuna, aver la gioia di fare qualche cosa
unicamente per amore di Dio. […] Da principio occorre un po’ di diligenza per
formarsi l’abitudine di conversare con Dio e di riferire a Lui ogni nostro
atto, ma dopo un po’ di perseveranza si finisce col sentirsi desti all’amore di
Dio senza alcuno sforzo.
Sempre,
quando gli si presentava qualche virtù da praticare, si rivolgeva a Dio
dicendogli: Dio mio, io non saprò fare questo se Voi non me lo fate fare;
e subito riceveva la forza necessaria e ancor di più. Quando aveva mancato, non
faceva altro che confessare la sua colpa e dire a Dio: Non farò mai altra
cosa se Voi lasciate fare a me. Sta a Voi impedirmi di cadere e correggere
quello che non è bene. Fatto questo, non si tormentava più oltre del suo
fallo. Diceva che con Dio bisogna condursi semplicemente e parlare francamente
e direttamente, chiedergli aiuto nelle cose che si presentano via via, aiuto
che Dio non manca mai di concedere: egli lo aveva sperimentato tante volte! […]
Essendosi abituato a fare tutto per amore di Dio e a chiedergli in ogni
occasione la Sua grazia per eseguire bene il proprio lavoro, aveva trovato
facilissimo anche il servizio della cucina, nel quale era stato impiegato per
quindici anni e che gli ispirava una ripugnanza invincibile. […]
I
pensieri inutili guastano tutto: il male comincia da essi; bisogna stare
attenti a cacciar subito i pensieri appena ci si accorge che non hanno a che
vedere con le nostre occupazioni o con la nostra salvezza, per ricominciare il
colloquio con Dio. In principio aveva passato tutto il tempo delle preghiere a
respingere i pensieri vani ed a ricadervi; non aveva mai potuto fare orazioni
secondo una determinata regola come gli altri; aveva però al principio fatto le
meditazioni, ma la stessa facoltà di meditare era scomparsa in lui senza che si
potesse spiegare come. Aveva chiesto di rimanere sempre novizio, non credendo
che volessero ammetterlo a fare la professione e sembrandogli impossibile che i
due anni di noviziato fossero passati.
Tutte
le penitenze e gli altri esercizi servono solo ad arrivare all’unione con Dio
mediante l’amore; cosicché, dopo averci pensato bene, aveva trovato più corto
andarci direttamente con un esercizio continuo di adorazione, facendo tutto per
amore di Dio. Bisogna fare grande differenza tra le azioni dell’intelletto e
quelle della volontà: le prime sono relativamente poca cosa e le altre tutto;
c’è solo da amare e giubilare nel Signore. Quand’anche facessimo tutte le
penitenze del mondo, se esse fossero separate dall’amore di Dio, non
servirebbero a cancellare un solo peccato; ma dei nostri peccati bisogna
aspettare senza inquietudine la remissione dal Sangue di Dio, adoperandoci
soltanto ad amarlo con tutto il cuore.
Dal
terzo colloquio (22 Novembre 1666)
L’alta
idea e la stima di Dio, mediante la fede, erano state il fondamento della sua
vita spirituale e, una volta in possesso di quest’idea, non aveva avuta altra
cura che di compiere tutte le sue azioni alla presenza di Dio, fermamente
rigettando ogni altro pensiero appena gli si presentava. Se qualche volta gli
accadeva di restare anche a lungo col pensiero assente da Dio, non se ne
inquietava troppo ma, dopo aver confessato al Signore la sua miseria, tornava a
Lui con una fiducia tanto maggiore quanto più si sentiva miserabile di averlo
così dimenticato. La nostra fiducia in Dio Lo onora molto e ci attira grazie
grandi. È impossibile che Dio inganni, non solo, ma anche che lasci lungamente
soffrire un’anima abbandonata completamente in Lui, risoluta a tutto sopportare
per amor Suo.
Disposto
com’era a morire e perdersi per amor di Dio, non aveva nessuna apprensione.
L’abbandono completo in Dio è la via sicura nella quale si ha sempre il lume
necessario per ben condursi. L’essenziale è esser sempre fedeli da
principio nell’operare e nel mortificarsi; dopo non vi sono che gioie
indicibili. Nelle difficoltà non c’è da far altro che ricorrere a Gesù Cristo e
chiedergli la Sua grazia, con la quale tutto diventa facile. Non bisogna
fermarsi alle penitenze e agli esercizi particolari, trascurando l’amore che ne
è il fine; le conseguenze di questo traviamento si vedono nelle opere e nella
scarsità di virtù vere. Per arrivare a Dio, non occorrono né sottigliezze di
mente, né scienza; ma solo un cuore risoluto a non dedicarsi che a Lui e per
Lui e di non amare che Lui.
Dal
quarto colloquio (25 Novembre 1667)
Fra’
Lorenzo, parlandomi apertamente e con grande fervore della sua maniera di
andare a Dio, insiste sempre nel dirmi, come ho già in parte riferito, che
tutto si riduce a rinunciare una buona volta a quanto non tende a Dio, per
abituarsi ad una conversazione continua con Lui, con semplicità e senza
sottigliezze. Per arrivare a questo, basta riconoscere Dio intimamente presente
in noi; rivolgerci ogni momento a Lui per chiedere soccorso, per conoscere la
sua volontà nelle cose dubbie e per fare bene quelle nelle quali ci si rivela
chiaramente il Suo volere, offrendogliele prima di farle e rendendogli grazie
dopo averle fatte per Lui. In questi colloqui con Dio, l’anima se ne sta
continuamente occupata a lodarlo e amarlo per la Sua infinita bontà e
perfezione.
(estratti
da: Fra’ Lorenzo della Resurrezione [1614-1691], La presenza di Dio,
Milano 1924; i corsivi sono originali)
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