L’Inferno esiste (ed è eterno)
Non est in ore
eorum veritas; cor eorum vanum est
(Sal 5, 10).
«Non c’è verità nella loro bocca; il loro cuore è falso». Questa è
la sentenza della Sacra Scrittura su quei Pastori i quali, anziché trasmettere
il sacro deposito della fede, com’è loro inderogabile dovere, divulgano
opinioni personali eterodosse. Tale è il caso dell’Arcivescovo di
Ferrara-Comacchio, il reverendissimo
monsignor Gian Carlo Perego, che il 22 Ottobre scorso, all’inaugurazione
dell’anno accademico della scuola diocesana di teologia per laici, non s’è
fatto scrupolo di liquidare un dogma di fede declassandolo a invenzione tomista
e dantesca. L’eternità dell’Inferno: roba da Medioevo? No, ma verità rivelata
da Dio, la cui negazione comporta la scomunica (cf. DS 411).
Un’affermazione del genere, oltre a causare l’esclusione dalla
Chiesa, implica pure la perdita della fede: chi rifiuta l’assenso
dell’intelletto anche ad un solo dato della Rivelazione, infatti, respinge
l’autorità di Dio rivelante e si pone al di sopra di essa. Se il prelato in
questione, dunque, non può immaginarsi che un suo fratello possa essere in
una condizione infernale, potrebbe presto verificare tale possibilità di
persona. A parte il fatto che l’Inferno non è una mera immagine, ma una
realtà spaventosa, da un vescovo non ci aspettiamo di certo che ci racconti ciò
che si immagina, bensì che ci confermi in ciò che dobbiamo credere per essere
salvi.
Come regolarsi in questi casi?
Prima che qualcuno gridi alla rivolta aperta, spengiamo subito il
fuoco con una considerazione di natura basilare: la distinzione tra il foro
interno della coscienza e il foro esterno del diritto; il primo riguarda
l’ordine morale, il secondo l’ordine giuridico, che sono solo in parte
sovrapponibili. Se la tua coscienza riconosce nel parlare di un altro un errore
manifesto, sei non soltanto libero di non ascoltarlo ma pure tenuto a farlo.
Qualora però l’errante sia rivestito d’autorità e abbia giurisdizione su di te,
non puoi per questo rifiutargli l’obbedienza a comandi legittimi, finché egli
non sia stato condannato e rimosso da un’autorità superiore.
Questo è il banalissimo sbaglio commesso da quanti, senza averne
facoltà, pretendono di giudicare i superiori non sul solo piano morale, ma
anche su quello giuridico, traendo così la falsa conclusione di essere esentati
dalla loro giurisdizione. Che poi ci siano singoli vescovi e sacerdoti
palesemente eretici non significa che tutto il clero cattolico sia
corrotto in blocco, nemmeno se essi sono molti o addirittura la maggioranza;
bastan la logica e l’esperienza a dimostrare la falsità di tale presunzione.
Chi però così presume si pone fuori della comunione ecclesiastica, ossia si
scomunica da solo; di conseguenza perde la grazia e rischia di dannarsi.
Come risolvere il dilemma?
Non si può tuttavia negare che per molti l’eternità dell’Inferno
rappresenti una pietra d’inciampo, poiché non riescono a conciliare con essa
l’amore divino. Il problema, in questo caso, è una fede non abbastanza matura,
che proietta in Dio il modo umano di pensare e di amare, il quale è limitato
per natura e, per giunta, viziato dal peccato. Questo guaio riguarda non solo
le pecorelle, ma anche i loro Pastori, alla cui formazione è mancato il
trattato De Deo uno (magistralmente svolto da san Tommaso all’inizio
della Summa) e la cui fede è deformata dal malsano antropocentrismo che
da sessant’anni impera nella Chiesa.
Se, nella misura del possibile, eleviamo la mente al livello dell’Essere
eterno e sussistente, non ci sarà difficile scoprire che, in Dio, non c’è
alcuna opposizione tra la bontà sconfinata e la giustizia più rigorosa. Gli
attributi divini sono infatti da Lui posseduti in sommo grado e con perfezione
infinita, poiché sono inerenti alla Sua essenza, che non è scomponibile, ma
assolutamente semplice; essi costituiscono aspetti diversi del Sommo Bene che
si distinguono soltanto sul piano logico, non su quello dell’essere. È perciò
impossibile che sussista tra di essi la minima opposizione o tensione, che
equivarrebbe a una contraddizione interna.
È nella nostra esistenza di creature peccatrici che può verificarsi
questo, ma non in Dio! In noi la bontà e la giustizia sono virtù da acquisire
con il costante esercizio e una diuturna lotta contro le tendenze cattive
lasciate nell’anima dal peccato originale. Tutte le nostre virtù saranno sempre
e necessariamente sia parziali e limitate (perché siamo enti finiti), sia
instabili e impure (perché siamo peccatori)… a meno che non raggiungiamo le
vette della santità. È assurdo proiettare in Dio ciò che siamo noi e sollevare
problemi che sussistono nell’uomo, non certo in Lui; finché lo si fa in modo
inconsapevole, si può essere scusati, altrimenti è un pensiero blasfemo.
E che dire dei poveri dannati?
Chi sta all’Inferno non ha alcuna possibilità di riabilitarsi,
poiché ciò richiederebbe il pentimento. Ora, che un dannato si penta è
impossibile per almeno tre ragioni. La prima è che l’anima, una volta uscita
dal corpo, viene a trovarsi fuori del tempo; non essendoci più successione di
momenti, non può più modificare la disposizione in cui era nell’istante della
morte e che rimane fissata per tutta l’eternità. La seconda è che l’anima
separata, libera dalle limitazioni della condizione terrena, vede perfettamente
la verità e, di conseguenza, non può più acquisire alcun merito nello scegliere
il bene. La terza è che l’anima dannata, a causa del rifiuto del bene in cui si
è stabilita, non conserva la minima traccia di carità e non è più in grado di
desiderare alcunché di buono.
Il rimorso dei reprobi è ben diverso dal rimpianto dei vivi, che
possono ancora rimediare ai propri errori: è un verme – secondo la
parola della Scrittura – che divora senza sosta la loro coscienza e la tormenta
con il pensiero di aver perduto per sempre, unicamente per propria colpa, il
Sommo Bene e la beatitudine che deriva dal Suo godimento (poena damni). I
dannati, di conseguenza, odiano Dio, gli Angeli, i Beati e finanche sé stessi
di un odio insaziabile e perenne che li brucia senza fine, acuito dalla tortura
incessante dei loro corpi ad opera del fuoco eterno (poena sensus).
Chi pensa che si tratti di invenzioni medievali, legga cosa scrive, nel IV
secolo, san Basilio Magno (Homilia in Psalmum
XXXIII, 8; PG 29, 370-371).
Cosa dobbiamo fare?
Anzitutto preghiamo per coloro che rischiano fortemente di
dannarsi, come la Madonna raccomandò a Fatima: «Sacrificatevi per i peccatori e
dite molte volte, specialmente ogni volta che fate qualche sacrificio: “O Gesù,
è per amor Vostro, per la conversione dei peccatori e in riparazione dei
peccati commessi contro il Cuore Immacolato di Maria”» (Memorie di suor
Lucia, 13 Luglio 1917). Tanti si salvano in virtù di una grazia speciale
ottenuta da un parente o anche da uno sconosciuto che ha offerto le proprie
sofferenze per quell’intenzione. Per intensificare il fervore, rileggete il
resoconto della visione dell’Inferno da parte di suor Lucia.
Non dimentichiamo poi di vigilare su noi stessi, dato che il demonio
ricorre a particolari metodi di seduzione, ammantati di un’apparenza di zelo,
per ingannare le anime che sfuggono alle tentazioni comuni. Non lasciamoci
trascinare fuori della comunione gerarchica per alcun motivo; insistiamo anzi
nella preghiera fiduciosa per la Chiesa. Quanto al resto, facciamo nostro
questo motto: Gloria del mondo: sterco! Piaceri della carne: immondizia!
Suggestioni del diavolo: illusioni! Chiediamo la grazia di poter
perseverare, costi quel che costi, sulla via dell’umile sequela di Gesù
all’interno del Suo Corpo Mistico, fuori del quale non c’è salvezza.
https://www.fcim.it/messaggio-di-fatima/13-luglio-1917-696
https://lanuovabq.it/it/per-mons-perego-non-ce-il-giudizio-ma-il-condono-universale
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