Il Papa della
Provvidenza
Deus, in sancto via tua
(Sal 76, 14).
Autentico
uomo di Dio non è colui che pretende di costringere la realtà divina nei suoi
astratti schemi intellettuali, ma colui che, mediante un amoroso studio della verità
rivelata illuminato dalla preghiera, acquista una sempre maggiore familiarità
con Lui. Il primo esclude progressivamente, con orgogliosa sufficienza, tutto
ciò che non rientra nel suo rigido sistema di pensiero, che rischia di
diventare una forma di gnosi di segno contrario; il secondo riconosce con gioia
e gratitudine, dovunque ne trovi, le tracce della presenza e dell’azione del
Creatore. Questo non è un cedimento al sincretismo o all’indifferentismo, ma un
principio prettamente cattolico: il vero uomo di Dio, nel cogliere i semi del Verbo, sa bene che non bastano
ad assicurare la salvezza e che hanno bisogno di esser liberati da un intrico
di errori prima di poter essere sviluppati e completati dalla Rivelazione.
Egli, però, non obbliga per questo i suoi simili a un lavaggio del cervello che
deve sostituire le loro idee con un carapace dottrinale bell’e fatto, ma,
facendo leva sulla sincerità del loro desiderio di verità e di bene, li guida
verso la piena conoscenza in un attento rispetto dei loro tempi di crescita, in
modo che la conversione sia un processo di reale cambiamento interiore,
piuttosto che una piatta asfaltatura della mente.
Che
oggi si abusi di questo metodo per insinuare l’eresia nella Chiesa non
significa che esso sia cattivo, ma che non è retta l’intenzione con cui è
applicato da chi vuole scardinare la fede e la morale. Viceversa, le facili
scorciatoie di chi usa le formule da mandare a memoria come punto di partenza,
anziché come punto d’arrivo, non producono credenti che saranno in grado di
attirarne a loro volta altri, ma fanatici appassionati della caccia all’eretico
e all’errore. Con questo andazzo si finisce col mettere sullo stesso piano
tutti i papi successivi al Concilio Vaticano II. Non si possono sicuramente negare
certe tare filosofiche e culturali che hanno gravato sulla formazione di
Giovanni Paolo II o di Benedetto XVI, ma il fondamento del loro pensiero è
innegabilmente cattolico. Anche il sincero sforzo di dialogare con la cultura
contemporanea ha lasciato delle ombre su alcuni aspetti del loro magistero;
forse è stata un’illusione quella di poter trovare un punto d’incontro
intellettuale con chi propugna una razionalità in cui non c’è posto per Dio, la
cui esistenza non è semplicemente l’ipotesi
migliore, ma è raggiungibile con la ragione. Tuttavia la grazia di stato ha
potuto fare la sua parte in uomini di retta coscienza portatori della missione
più alta; il giudizio definitivo su atti che possono apparire temerari o
scandalosi, peraltro, spetta unicamente a Dio.
Altro
è il discorso, invece, qualora uno rifiuti espressamente gli elementi
fondamentali della fede cristiana, sostituiti da idee di stampo marxista
indebitamente ricondotte al Vangelo. Qui non è più questione di (de)formazione
culturale, ma di adesione puramente nominale alla Rivelazione divina. Quest’ultima
serve a coprire una visione gnostica ed evolutiva della divinità che, nel XX
secolo, ha profondamente contagiato il glorioso ordine dei gesuiti,
corrompendolo profondamente. Tre nomi hanno particolarmente determinato tale
deriva: Pierre Teilhard de Chardin, un folle probabilmente posseduto fin
dall’infanzia, i cui libri, nonostante la rimozione dall’insegnamento, hanno
avuto una diffusione e un influsso enormi; Karl Rahner, autore di una
“rilettura” del cristianesimo in chiave immanentistica e principale responsabile
della sua perversione in senso antropocentrico; Hans Urs von Balthasar (che poi
uscì dall’Ordine), lodato costruttore di una cattedrale speculativa poggiante
sull’impossibile tentativo dialettico di riconciliare l’eresia luterana con la
fede cattolica.
Qui
la forma mentis non è più cattolica,
ma idealistica: non è più l’intelletto ad adeguarsi alla realtà (in questo
caso, quella divina), ma la realtà che è oggetto della Rivelazione ad essere
coartata in uno schema culturale incompatibile in quanto erroneo. Un conto,
allora, è che una genuina fede cattolica si sia sviluppata in una certa atmosfera
intellettuale e l’abbia in parte respirata; un conto è che una visione del
tutto estranea ad essa se ne sia impossessata per trasformarla in
qualcos’altro. Questo è quanto è accaduto con buona parte della nouvelle théologie francese e tedesca e,
in modo ancor più evidente, con la “teologia” della liberazione, che in fin dei
conti ne è un sottoprodotto. La teologia italiana, con l’estinzione della
Scuola romana, è per lo più andata a rimorchio: in generale, salvo qualche raro
autore che osa ancora studiare san Tommaso o san Bonaventura, tutti sono più o
meno prigionieri della cultura filosofico-teologica di matrice germanica.
In
questo quadro, lascia quantomeno perplessi che, in certi settori della
resistenza, si continui ad accanirsi contro Benedetto XVI. A parte la sua
veneranda età e il fatto che non svolge più alcuna funzione ufficiale,
equipararlo al successore è un’evidente forzatura. Che i suoi scritti, per
forma e contenuto, non si possano incastrare nel letto di Procuste di un
tomismo così rigido che sarebbe rigettato dallo stesso san Tommaso – il quale,
dopo una visione, diede ordine di bruciare la Summa! – non significa che siano da cestinare in toto; negare poi per principio che si sia verificata in lui
un’evoluzione (nonostante il convinto attaccamento a un Concilio a cui, a suo
tempo, ha contribuito in modo decisivo, ma che col senno di poi, a prescindere
dalla sua ermeneutica, ha fatto più danno che bene) equivale a misconoscere
l’azione della grazia in un uomo limpido e retto che è stato elevato al supremo
pontificato. Se la Provvidenza si è saggiamente servita di lui per ridare piena
cittadinanza alla Tradizione, innescando così un irreversibile processo di
recupero, non è stato certo per indurre in inganno i suoi cultori attirandoli
in una trappola modernista camuffata da incenso e merletti. Vorremmo farci più
sapienti di Dio stesso, finendo così con l’imitare i nostri avversari?
Anche
qui si rischia di voler cacciare la realtà in uno schema ideologico che taglia
fuori tutto ciò che non corrisponde perfettamente a un modello preconfezionato,
anziché riconoscere con umile gratitudine quanto il Signore ha realizzato,
sebbene per mezzo di strumenti imperfetti. C’è forse qualcuno, del resto, che
possa vantare la perfezione in statu viatoris? Solo la Chiesa nella
sua totalità è infallibile, e il suo Capo a determinate condizioni. Il richiamo
letterale del Magistero di sempre, per alcuni, pare servire a troncare nell’argomentazione
ogni sottigliezza, sia pur necessaria, rischiando così di diventare una clava
da usare in tutte le situazioni, anche quando ci vorrebbe un bisturi. Solo chi
ha perso il contatto con lo stato reale della società e della gioventù può
illudersi che basti uno sbrigativo indottrinamento per rimediare allo sfacelo
intellettuale e morale di tanta gente che, molto spesso, è divenuta incapace
del benché minimo ragionamento e va presa pazientemente per mano – sempre che
accetti – per risalire a poco a poco la china di un abisso in cui, oltretutto,
è convinta di star benissimo e di non aver bisogno di nient’altro.
I
pericoli più gravi che si nascondono dietro un’indiscreta setacciatura di
errori, tuttavia, colpiscono al cuore il mistero stesso della Chiesa, unica
arca di salvezza. Questa cavillosa tricotomia rischia di avvalorare, suo
malgrado, la tesi dei novatori sulla rottura della continuità, che è
incompatibile con una corretta visione
ecclesiologica: di questo passo, infatti, uno sguardo prevalentemente
storicistico finisce col prevalere su quello soprannaturale dell’indefettibile
società fondata dal Verbo incarnato. C’è un modo di guardare alla Tradizione
che sembra considerarla interrotta (cosa che non è affatto possibile) e che tiene
le persone rivolte all’indietro, come se il Signore avesse smesso di guidare la
propria Sposa verso il compimento promesso. Di conseguenza, i vari – e
divergenti – tentativi di preservarla autonomamente ergendosi ad autorità di sé
stessi tendono a frantumare la Chiesa in molteplici correnti e aggregazioni,
convinte ognuna di possedere la ricetta giusta, ma operanti di fatto come tante
schegge impazzite. Non è certo questo il miglior servizio che si possa rendere
al Corpo di Cristo, per non parlare del fatto che, molto spesso, si trascura in
modo lampante la carità verso quel prossimo che, in buona fede, è su posizioni
diverse.
Non
da ultimo, l’ostinato accanimento di chi investe le migliori energie a stanare
scritti e persone per esporli alla pubblica gogna nel proprio piccolo circolo di eletti – a parte la forte tentazione di superbia – rischia di distoglierne
l’attenzione dalla propria personale correzione e santificazione. Non le
interminabili diatribe che inaridiscono gli animi, ma soltanto la carità di
nuovi santi potrà ottenere il miracolo di risuscitare la fede in cuori così
induriti da non esser più nemmeno umani. L’unica vera soluzione è la santità,
che presuppone ovviamente la sana dottrina, ma nondimeno tanta preghiera,
penitenza e pratica delle virtù. «La fede, se non ha le opere, è morta in se
stessa» (Gc 2, 17): non era forse proprio un certo Lutero che non sopportava
questa parola della Scrittura? Vogliamo ritrovarci, per altra via, in sua
compagnia o dargli ragione coi fatti, pur combattendolo a parole? Dobbiamo
farci santi, cari fratelli: così potremo sviluppare al massimo grado quel senso
soprannaturale della verità che ci permetterà di distinguere spontaneamente ciò
che è buono, per tenerlo, da ciò che non lo è, per tralasciarlo; così renderemo
giusto onore a Dio e giustizia ai Suoi strumenti, nonché l’amore dovuto al
prossimo.