Iam enim securis ad radicem arborum posita est.
(Mt 3, 10)

sabato 28 gennaio 2017


Il peggiore nemico degli ebrei



È un argomento esplosivo, ma non possiamo continuare a permettere che i nostri ragazzi siano mentalmente manipolati da una visione storica scorretta che è servita e serve tuttora a giustificare l’instaurazione di un nuovo ordine a livello planetario. Non si tratta semplicemente di ristabilire le reali proporzioni dell’olocausto, ma di coglierne la matrice e il movente autentici. Non intendiamo certo alimentare il filone negazionista riguardo a quello che rimane comunque uno dei peggiori crimini del XX secolo (largamente superato, tuttavia, dalle carestie e dai genocidi provocati da Lenin e Stalin, di cui non si parla mai nel “civile” Occidente che stermina i suoi figli, sebbene siano ampiamente documentati); desideriamo unicamente accertare la verità in modo da non lasciarci più soggiogare da quella che risulta propaganda nel senso tecnico del termine, intesa a farci accettare supinamente un progetto politico totalitario che è quasi giunto a compimento.

A pochi mesi dalla sua costituzione, nell’agosto del 1933, il governo nazista siglò con il movimento sionista un accordo, poi battezzato Ha‘avarah (trasferimento), con cui si impegnava a favorire con tutti i mezzi l’emigrazione degli ebrei di Germania verso la Palestina. Non soltanto fu istituita una speciale linea di navigazione dai porti anseatici per Haifa, ma si finanziò l’acquisto di macchine e utensili agricoli di fabbricazione tedesca, mentre i candidati pionieri venivano addestrati in veri e propri kibbutz sul territorio germanico. Nonostante l’opposizione del giudaismo internazionale e quella della Gran Bretagna, che non vedeva di buon occhio una massiccia immigrazione ebraica che creasse tensioni con gli arabi in una regione da essa amministrata, Hitler continuò ad approvare questa politica fino in piena guerra, quando già i famigerati campi di sterminio funzionavano a pieno ritmo. Gli eventi bellici inevitabilmente rallentarono, ma non arrestarono il costante flusso migratorio, che in meno di un decennio interessò un totale di circa sessantamila persone.

Un interesse comune al nazismo e al sionismo? Sembra paradossale, ma risulta proprio così, come denunciano ambienti ebraici antisionisti. Gli uni volevano la “razza pura”, gli altri la rinascita della nazione e di uno Stato ebraici. I secondi, anzi, acclamarono entusiasti le leggi razziali, che venivano finalmente a ripristinare la separazione tra Giudei e Gentili richiesta dalla Torah, ma di fatto non più rispettata. Ciò che i rabbini faticavano a esigere sarebbe stato ora imposto da un governo pagano con la loro complicità. Alla risurrezione di Israele si ponevano però almeno due grossi problemi: anzitutto, bisognava convincere a partire una popolazione che non aveva certo voglia di abbandonare le proprie floride e consolidate posizioni per andare a far fiorire il deserto con la vanga in una mano e un mitra nell’altra; in secondo luogo, quella striscia di terra tra il Mediterraneo e il Giordano non avrebbe mai potuto accogliere tutti gli ebrei sparsi nell’orbe. Si imponeva così la necessità di un intervento di selezione che costituisse al contempo un convincente incentivo a cambiare aria…

Qualcuno urlerà di scandalo, accusando questa ricostruzione di essere pura fantasia antisemita. Ma nelle pubblicazioni sioniste degli anni Trenta si trovano riflessioni e affermazioni che vanno proprio in questo senso. C’è di più: la ricostituzione dello Stato d’Israele vi è collegata – guarda caso – alla realizzazione di un nuovo ordine in Europa (e quindi nel mondo, dato che all’epoca i Paesi europei ne erano in buona parte padroni), mentre la soluzione finale del problema ebraico (parole loro) comportava l’abbandono del Vecchio Continente da parte dei giudei – forse perché il continente cristiano per eccellenza, nel loro piano, era condannato al degrado e alla rovina? Certo è che, una volta rinnegato il vero Messia inviato da Dio, se ci si ostina nell’impenitenza bisogna per forza inventarsi un messianismo sostitutivo (di natura politico-finanziaria) e sopprimere la realtà che da Lui è nata, poiché la sua sola esistenza costituisce un incessante rimprovero e un tacito richiamo alla conversione (anche se, per compiacere il rabbinismo, ha smesso di lanciarlo e di pregare per essa).

Ecco la vera posta in gioco: la sopravvivenza della Chiesa. In Medio Oriente la presenza cristiana è quasi scomparsa; in Occidente è ridotta al lumicino – e quel poco che rimane si è in larga parte corrotto in seguito a un concilio pastorale. L’America Latina è presa d’assalto da ricchissime sètte protestanti; l’Africa, già stritolata dal debito estero, nell’assoluta indifferenza dei mass-media è decimata da bande di macellai armati dalle multinazionali. L’evangelizzazione langue, bollata di proselitismo da chi dovrebbe invece promuoverla o ridotta a dialogo interreligioso, specialmente in Asia. Saremo accusati di semplicismo o di fanatismo a voler ricondurre tutto ad una matrice unica, ma chi può negare che certi banchieri finanzino sètte, rivoluzioni, terroristi e… teologi? Mancano le prove, accidenti! Ma facciamo un esempio per tutti: a chi fu affidata la stesura del paragrafo 4 della Nostra aetate? Ma è ovvio, che diamine: a una commissione di rabbini.

L’immane operazione di mistificazione culturale e di lavaggio del cervello che, grazie a una classe politica prona al sionismo, subiamo da settant’anni non trova più un argine nemmeno nella Chiesa Cattolica, la cui gerarchia se n’è anzi fatta in buona parte complice. La carità e l’amore per la verità esigono invece che si individui e denunci la menzogna per il vero bene di tutti i figli di Abramo: di quelli secondo la carne, per la loro conversione; di quelli secondo la fede, per la loro resipiscenza.

sabato 21 gennaio 2017


Censurato



Per inculcare una nuova visione della realtà che faccia da supporto ideologico al regime che si vuole imporre, bisogna manipolare i testi fondativi di una società o, quando possibile, impedirvi l’accesso. Nella Chiesa Cattolica questo è accaduto durante e dopo il Vaticano II. La seconda soluzione fu adottata per tutti (o quasi) gli esponenti della teologia precedente, completamente scomparsi dai libri e dall’insegnamento, nonché dai cataloghi delle case editrici; i nomi e le opere degli autori tra l’Otto e il Novecento furono radiati dalla storia o, nel migliore dei casi, condannati alla damnatio memoriae: se non altro si poteva ancora sapere che erano esistiti, ma solo per farne bersaglio di esecrazione o di dileggio. Contemporaneamente veniva tolto ogni argine agli scrittori dubbi o palesemente eretici, che assurgevano al ruolo di maestri indiscutibili – e, soprattutto, intoccabili. Là dove un’operazione del genere non era possibile (cioè con i testi biblici) si scelse invece la prima soluzione: una vera e propria manipolazione perpetrata in nome dell’approccio scientifico.

L’attacco risale a prima della cosiddetta riforma liturgica: basti pensare – per fare giusto un esempio – alla nuova traduzione dei Salmi con cui già negli anni ’50 si tentò di sostituire, nel Breviario e nel Messale, la Vulgata di san Girolamo, promulgata dal Concilio di Trento come testo biblico ispirato cui riferirsi in perpetuo. Un bel latino piano e forbito, se non un po’ slavato, sembrava ai promotori un vantaggio indiscutibile rispetto a quello ruvido e virile (e a volte incomprensibile, bisogna pure ammetterlo) del santo eremita di Betlemme. Il fatto è che la nuova traduzione spazzava via in un colpo solo buona parte di quelle espressioni profetiche che, per ben millecinquecento anni, avevano costituito la base dell’interpretazione cristologica, mariologica ed ecclesiologica dei Salmi, che mediante la liturgia e la preghiera aveva plasmato il pensiero e la sensibilità dei cattolici.

Un millennio e mezzo di insegnamento rimaneva di colpo privato dei suoi fondamenti biblici; vi pare poco per la fede del clero e dei fedeli? Quella traduzione, sul momento, non fu recepita, ma il medesimo spirito che l’aveva animata ritornò a galla pochi anni dopo nelle varie traduzioni in lingua volgare – e per tutta la Bibbia, per giunta. Non parliamo poi delle traduzioni “ecumeniche” effettuate in combutta con i protestanti: buona parte di ciò che, nell’Antico Testamento, è profezia o prefigurazione del Nuovo è stato riformulato (compresa la verginità della Madonna; cf. Is 7, 14) per la gioia del giudaismo talmudico. Di conseguenza l’interpretazione patristica e tradizionale della Sacra Scrittura risulta quanto meno inappropriata o fantasiosa, gli scritti dei Santi incomprensibili. Ma quanti, anche fra i sacerdoti, sono stati in grado di cogliere subito l’ampiezza e la profondità della trasformazione così operata nel comune sentire?

Con gli scritti dei Padri si adottò un procedimento misto. Nella scelta dei testi da proporre allo studio e alla meditazione, anzitutto, si scartò decisamente tutto quanto potesse far sospettare che la teologia precedente al Concilio fosse in realtà molto più in continuità con la loro che non la “nuova teologia”, che si piccava invece di averli riscoperti. Di fatto, in questo preteso “ritorno ai Padri”, si selezionarono i passi che più si confacevano al sostegno dei cavalli di battaglia dell’aggiornamento. D’altro canto si impose l’abitudine di riportare i passi biblici da loro commentati nelle nuove traduzioni, con il risultato che le loro spiegazioni, in molti casi, suonano incongruenti o per lo meno strane. Ci si può rompere il capo per anni a cercar di capire meglio le letture del breviario, finché non ci si rende conto che il testo sacro su cui lavoravano i Padri era spesso sostanzialmente diverso. Ma non è mai troppo tardi…

Ora, si tratta forse di una questione puramente filologica o accademica? Pensate all’enfasi che, negli ultimi cinquant’anni, si è posta sulla lettura della Bibbia, sulla liturgia della Parola e sulla recita dell’Ufficio divino (ops!… della Liturgia delle Ore). Là dove – e questo avviene sempre più spesso anche in Italia – c’è carenza di clero, ecco saltar sulla ribalta la suora o il “laico formato” che, al posto della Messa, ti fa un bel predicozzo e ti distribuisce la comunione. Che ti manca? o di che ti lamenti? Alla bancarella del sacro hai avuto quel che ti è garantito anche dal prete… Chi si accorge che il Sacrificio non c’è stato? Sacrificio…?!? Ma noi siamo cristiani, mica una religione pagana… Ma anche gli indù sgozzano i galli per placare i loro dèi, magari – se invitati – sull’altare di una cattedrale cattolica. Ma che c’entra, bisogna rispettare le altre religioni! Tutte, fuorché la nostra… Ma la nostra non è una religione, è un camminare insieme con tutti gli uomini (e le donne) di buona volontà. Verso dove? Ma che domanda, verso la pace e la fratellanza universale!

Questo dialogo è molto meno immaginario di quel che sembra. Se i risultati del “rinnovamento ecclesiale” sono questi (e di fatto lo sono per moltissimi fedeli che frequentano le nostre chiese), vien da chiedersi se le premesse fossero buone. Non parliamo nemmeno di chi si tiene sul comodino l’urna del caro estinto pensando così di averlo ancora vicino o di chi, avendo stabilito che la nonna continua a vivere nel gatto, è convinto per questo di aver la fede; in questi casi basterebbe avere la ragione. Per quanto ci sia da piangere, per non andare in depressione vediamo il lato comico di questa grottesca situazione, visto che quel che vien da Roma non fa di certo ridere… Se poi uno ha lo scrupolo di volersi ancora confessare e – che eccentrico! – di accusare i suoi peccati, si guardi bene dal seccare il prete con le sue paranoie: ormai Dio è cambiato, siamo entrati in una nuova èra! Chi non vuol capire questo o è un ladro o una spia.

Vedete dove ha portato la manipolazione di cui si diceva? Decenni di predicazione e insegnamento su testi alterati, censurati o selezionati hanno creato una nuova immagine di Dio – ma un’immagine del tutto fantasiosa e inconsistente. Il vero Dio, quello che ci ha voluto raggiungere parlandoci con parole umane (così umane, a volte, da esser quasi scandaloso), così che potessimo comprenderlo e conoscerlo, è stato rimosso dalle menti e dai cuori epurando persino le preghiere da Lui ispirate da tutto quanto poteva turbare i sentimenti che la nuova “religione” irenistica e umanitaria doveva introiettare nei fedeli. Coloro che hanno preteso di “ridarci la Bibbia” l’hanno prima accuratamente ripulita, almeno nell’uso liturgico; altrimenti hanno declassato i testi scomodi a genere letterario o eziologia storica… Che vuol dire? Non preoccupatevi, non vi siete persi nulla. Il risultato, in ogni caso, è che il Dio dell’Antico Testamento era malvagio e vendicativo; quello del Nuovo, invece, è misericordioso. Ma come la mettiamo con i fratelli maggiori? Stranamente non si offendono, anche perché Gesù stesso, con questo andazzo, è superato – e, in fondo, era quello che volevano.

Sarà un caso che i danni mentali e spirituali più gravi si riscontrino negli ambienti in cui più si spezza la Parola, cioè negli istituti religiosi e nelle parrocchie all’avanguardia? Pensate all’effetto corrosivo di quello che è il frutto più accessibile della nuova esegesi: le preghiere dei fedeli (chissà perché, obbligatorie anche nelle Messe feriali) e le invocazioni inserite nella Liturgia delle Ore. Un campionario di richieste che al contempo esprimono e rafforzano tutto un atteggiamento spirituale: ci si aspetta da Dio o cose decisamente impossibili o che faccia ciò che dobbiamo fare noi, quando non si tratta – anziché di preghiere – di pie esortazioni rivolte a tutte le categorie di persone, che da esse dovrebbero essere radicalmente trasformate. Illusione, attesa magica, aspirazioni utopiche: ecco ciò che, a poco a poco, si è generato nei cattolici, a forza di sentir ripetere certe assurdità. Ma la natura matrigna (a chi è figlio degenere del Padre) ci riporta inesorabilmente alla dura realtà. Non sarà il caso di rimetterci tutti a fare penitenza?

sabato 14 gennaio 2017


Come il chicco di grano



«Che cosa credete che facevamo in seminario?». Questa volta, nonostante le apparenze, non è una vergognosa ammissione. È la candida “confessione” di un giovane sacerdote cui il vescovo ha minacciato la sospensione a divinis qualora si azzardi a celebrare in rito antico. «Lei sa celebrare la Messa tradizionale, Padre?», è stata la spontanea reazione. «Certo, ho imparato durante gli studi. Che cosa credete che facevamo in seminario?». Grandioso. C’è tutto un movimento sotterraneo che sta crescendo silenziosamente fra seminaristi e giovani preti, sotto il naso di quella nomenklatura al potere che come una banderuola, quattro anni fa, ha repentinamente quanto radicalmente cambiato orientamento. Non ci si può opporre a Dio. Ecco i veri segni dei tempi di cui si riempiono la bocca nei loro stanchi ritornelli, che nessuno vuol più sentire. Poi si rompono il capo per capire come mai i ragazzi scappino dalle parrocchie appena ricevuti i sacramenti…

Ci avevano confezionato un nuovo “cristianesimo” facile e piacevole, al passo coi tempi, sensibile ai temi del mondo moderno e alle attese dell’uomo contemporaneo, senza regole, sacrifici, rinunce, penitenze, retaggio di un oscuro Medioevo in totale contraddizione con il Vangelo, quel lieto annunzio di liberazione, pace, gioia, amore e fraternità universale rimasto disatteso per quasi due millenni… Finalmente l’utopia diventava realtà; la Chiesa ritrovava la sua vera identità di rete informale di piccole comunità autarchiche, la liturgia rifioriva nella creatività dell’improvvisazione, Gesù poteva di nuovo passare fra la gente con la sua parola liberatrice e tutti, ortodossi, protestanti, ebrei, musulmani, buddhisti, indù, atei o animisti – che lo gradissero o meno – erano promossi a nostri fratelli. L’attesa escatologica si era miracolosamente compiuta: il “regno” era ormai fra noi, bastava convincersene e farlo sapere agli altri.

Su ciò che non andava, nella Chiesa o nel mondo, bisognava solo chiudere gli occhi; se proprio non era possibile, la soluzione era derubricare a debolezza o anomalia quanto fino allora considerato peccato, aggiornando l’arretrata morale cattolica alla luce degli ultimi dati della psicologia e della sociologia. Chi, nonostante l’arrivo dei tempi messianici, commetteva ancora crimini assolutamente inammissibili andava paternalisticamente compatito come qualcuno che non aveva capito la verità e a cui, di conseguenza, si sarebbe dovuto spiegare perché sbagliava. La fede coincideva con le giuste idee che assicuravano la salvezza – una salvezza del tutto terrena che si riassumeva in un vago benessere psichico conseguente al superamento delle alienazioni contemporanee. Nessuno, a quanto pare, s’era avveduto che quelle alienazioni derivavano proprio dall’abbandono della fede ricevuta e dei suoi modi tradizionali di esprimersi e nutrirsi.

Come meravigliarsi che questo “cristianesimo” nuova versione non dica più niente a nessuno? Come stupirsi che questo suo surrogato artificiale e posticcio risulti sempre più irritante e noioso, se non quando è oggetto di irrisione o di disprezzo? Abbiamo usato il nome di Dio invano, in modo da farlo bestemmiare e da rendere la fede irrilevante. Ciò che non costa nulla, ciò che dovrebbe venire spontaneo non appena se ne parli… non riveste il minimo interesse, eccetto per quelli che scelgono deliberatamente di vivere nell’illusione e di sostituire la realtà con l’immaginario della loro fantasia di persone immature. Tolti pochi individui di buona volontà sinceramente impegnati, ma spesso irretiti dall’ideologia loro inculcata, le parrocchie rigurgitano di gente che si agita per farsi notare sul miserabile palcoscenico della “pastorale creativa” o per realizzare improbabili progetti partoriti da una mente contorta in una curia diocesana.

Ma ecco che proprio quanto era stato irreversibilmente bandito come espressione di una religione crudele, retrograda, alienante e oscurantista ritorna a poco a poco a galla, senza far rumore. Non sono nostalgici o fondamentalisti a riesumarlo, ma adolescenti e giovani che scoprono che esiste qualcosa di serio per cui valga la pena vivere ed eventualmente consacrarsi. Ciò che costa sforzo e sacrificio deve aver valore – e la vita va pur spesa per qualcosa che abbia valore. Il soffocante nichilismo attuale non è imputabile esclusivamente agli indirizzi filosofici della modernità, ma anche al fatto che tutta una generazione di preti e religiosi gli ha spalancato le porte della Chiesa. Si può pure comprendere, con l’occhio dello storico, il loro personale disagio esistenziale in un’epoca segnata da profondi stravolgimenti politici, culturali ed economici, ma visti i risultati non si può certo dire che le loro scelte siano state vincenti. Sarebbe tempo di ammetterlo…

«Che non vi accada di trovarvi a combattere contro Dio» (At 5, 39). Perché i grandi esperti della Parola fanno così fatica ad attualizzare ciò che li concerne? Forse perché questo li obbligherebbe a convertirsi? Eppure «tutti dobbiamo comparire dinanzi al tribunale di Cristo» (2 Cor 5, 10)… e non vengano a raccontarci che questa è soltanto un’espressione pedagogica da demitizzare. È consolante costatare che, per molti seminaristi attuali, Bultmann, Rahner, Teilhard de Chardin e compagnia sono illustri sconosciuti o tutt’al più oscuri nomi che trovano giusto nei libri. Il vento autunnale porta via le foglie secche; poi, sotto la soffice coltre di neve, il frumento gettato nel terreno germoglia e cresce di nascosto, ma deve necessariamente spuntare e svilupparsi fino alla messe. «Guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura» (Gv 4, 35).

Per vederli, basta avere occhi non bendati dall’ideologia, ma rischiarati dallo Spirito. I giovani amanti della Tradizione non sono rigidi o insicuri, ma persone che si stanno realmente liberando dalle alienazioni indotte da una cultura perversa cui la “nuova chiesa” ha fatto da cassa di risonanza. Quando le deficienze inerenti alla natura umana decaduta o – peggio – le patologie di una società malata, sotto l’influsso della psicanalisi, sono considerate parte integrante dell’ordinario (e quindi inevitabile) funzionamento dell’uomo, si rischia davvero di alienarsi di brutto. Se uno si sente dire, in seminario o in convento, che non solo non si può fare a meno di un’attività sessuale, ma che l’impurità e le perversioni sono comuni a tutti, non potrà mai coltivare la castità, a meno che, per una grazia singolare, non si accorga dell’inganno. Rifiutarsi di essere manipolati non è indice di rigidità mentale, ma segno di libertà interiore e di consapevolezza del pericolo.

Avanti, dunque, senza paura! Sono lor signori che temono giovani svegli che non abboccano più. Sanno benissimo che, se si applicasse realmente il Summorum Pontificum, la situazione sfuggirebbe loro di mano: l’assiduità alla vera Messa dissolve la soggezione a un sistema totalitario impostosi con una colossale manipolazione collettiva di cui il novus ordo è il principale strumento. Chi celebra o assiste al divin Sacrificio nella forma che ci è stata consegnata, piuttosto che in quella inventata a tavolino per compiacere protestanti e massoni, comincia a sentirsi come un re che ha ricuperato i suoi domini. Più questa partecipazione è gravosa o rischiosa, più abbondante ne è il frutto spirituale. Lancio dunque un appello ai seminaristi e ai giovani sacerdoti: fatelo sempre di più – magari di nascosto, ma fatelo. È paradossale doversi esprimere così, ma che volete: è tutto capovolto. Soprattutto consacrate voi stessi e le vostre comunità al Cuore immacolato di Maria: sarà Lei a far crollare il sistema (come ha già fatto con l’impero sovietico), ma vuole servirsi di voi.


sabato 7 gennaio 2017


La terza via



La crisi nella Chiesa è talmente grave che i sani dovrebbero far quadrato. È vero, senza ombra di dubbio. Tuttavia, se mi soffermo a osservare i difetti di certi ambienti tradizionalisti, non è per il gusto di “fare le pulci” agli altri, ma per segnalare gravi pericoli che nascono da un’impostazione tendenzialmente settaria e dall’isolamento in cui si sono deliberatamente rinchiusi. Non si tratta di piccole magagne o di dettagli di secondaria importanza, bensì dell’essenza stessa della vita cristiana; la posta in gioco è l’essere realmente sani dal punto di vista soprannaturale.

L’adesione alla verità oggettiva non può prescindere completamente dalle condizioni del soggetto che deve conoscerla e praticarla. Una tendenza eccessivamente spiccata all’astrazione finisce col perdere di vista la realtà concreta delle persone, che è evidente al semplice buon senso. Un sistema di pensiero apparentemente perfetto (perché ogni cosa è incasellata in un posto preciso e ogni problema ha una soluzione prestabilita) rischia di passar sopra le situazioni effettive degli individui e della loro epoca storica, inquadrandole in una bella cornice ma lasciandole sostanzialmente come sono. Tali considerazioni non sono un cedimento allo storicismo, al relativismo o al soggettivismo, ma una semplice professione di sano realismo.

La tendenza oggettivante e astraente, tipica dell’uomo, legata alla sua propensione a porsi di fronte al mondo come a una realtà da conoscere e trasformare in base alle sue necessità e interessi, ha bisogno di essere contemperata dal senso della vita caratteristico della donna, il cui temperamento materno la rende sensibile alle condizioni delle persone, ai loro bisogni e alle aspirazioni che le abitano. «Non è bene che l’uomo sia solo» (Gen 2, 18): è molto più di un problema di solitudine, è un’esigenza di reciproco completamento. L’essere umano ha pure bisogno, viceversa, di un padre che, distaccandolo dalla madre, lo renda capace di un’esistenza autonoma e di un giudizio che non sia assoggettato ai sentimenti o alle emozioni.

L’equilibrio tra i due atteggiamenti è un’arte che si apprende alla scuola di Gesù e di Maria. Anche l’esercizio del ministero sacerdotale deve comporre armonicamente in sé tratti paterni e materni per poter realmente generare, nutrire ed educare le anime alla vita divina; un eccesso in un senso o nell’altro è comunque deleterio. La scomparsa del padre è un fenomeno che accomuna la società e la Chiesa odierne; di qui la deriva nel sentimentalismo soggettivo, in convincimenti personali tanto arbitrari quanto ottusi e pertinaci, in ambigui e asfissianti rapporti di fusione o di ricatto… È il trionfo di una “maternità” abusiva e deformata che soffoca i propri figli.

Là dove invece prevale un sistema unilateralmente mascolino, le cose non vanno necessariamente meglio per il semplice fatto che si evitano le deviazioni appena menzionate. In questo caso, infatti, la dottrina cristiana rischia di trasformarsi in un’arida costruzione intellettuale che può compiacere l’intelligenza, ma non è realmente accolta nel cuore così da poter plasmare la coscienza; il culto e la preghiera possono ridursi a mera esecuzione di riti e di formule che, per la freddezza e il distacco di chi la compie, si risolve facilmente in una disastrosa controevangelizzazione, specialmente dei più giovani; la vita morale può assumere i contorni di un’indifferente ottemperanza a una disciplina esteriore, che scade rapidamente nell’ipocrisia e nel cinismo. Per crescere in una vita genuinamente cristiana non basta conoscere a memoria gli asserti del catechismo o applicare un metodo di valutazione morale come si trattasse di un’equazione matematica.

Sono forse vaghi rischi o questioni marginali, queste? Chi legge giudichi. Se qualcosa di buono la modernità ha portato, è una maggiore consapevolezza dell’importanza del soggetto, anche nella vita di fede. Riconoscere questo è forse un’apertura al modernismo? Non mi sembra proprio. È piuttosto un’esigenza di fedeltà a quella verità rivelata che deve essere accolta in profondità da persone reali, non da puri spiriti o da astratte entità mentali. L’esigenza “maschile” di obiettività richiede che essa sia presentata per quello che è, non per quello che piace a chi parla o a chi ascolta; l’attenzione “femminile” alle condizioni concrete dei destinatari spinge a cercare il modo più adatto perché essa sia effettivamente recepita e compresa in modo vitale.

L’esperienza bimillenaria della Chiesa, nonché quella diretta di ogni buon evangelizzatore, lo conferma. Non si sono mai ottenuti buoni risultati asfaltando le menti di formule e precetti; sotto lo strato di bitume le male erbe continuano a svilupparsi indisturbate, fino a forarlo… e il giorno in cui questo accade, amare sono le sorprese, specie nella vita di un sacerdote o di un consacrato. È forse meglio – obietterà qualcuno – che l’esistenza di un cattolico (chierico, religioso o laico) sprofondi direttamente nel marcio per l’assenza di qualsiasi regola? Non intendo certo questo: evidenziare un inconveniente non significa approvare quello opposto; vorrei soltanto, se possibile, trovare una via equilibrata. È faticoso, certo, ma chiunque abbia a cuore la salvezza delle anime non se ne può esimere. Tra lo sbraco e l’indottrinamento, perché non tentare con la persuasione?

È indubbio che la liturgia tradizionale trasmetta la fede integra, renda a Dio il culto che gli è gradito e sia più efficace per il bene spirituale dei fedeli; in una parola, è il baluardo della vera religione. Ma mezzo secolo di mistificazioni non si cancella in un attimo. Le persone hanno bisogno di tempo – nonché di una grazia del tutto speciale – per modificare le prospettive e le coordinate della mente e del cuore; chi scrive lo sa per esperienza personale. Vogliamo essere meno pazienti del buon Dio e costringere la gente a un salto mortale? Siamo sicuri che ce la faranno o che, al contrario, non abbandoneranno l’impresa scoraggiati senza neanche la possibilità di tornare a ciò che avevano prima, di cui avremo fatto terra bruciata? La responsabilità è troppo grande; la Chiesa non è una piccola élite riservata a chi ha una buona dose di intellettualismo e di volontarismo – ammesso che capisca qualcosa all’infuori delle istruzioni che riceve in vernacolo, costretto perciò, sospeso com’è sul vuoto, ad aggrapparsi ad esse senza altri appigli… Non credo che il Signore voglia soldatini impassibili e manovrabili a comando: Gloria Dei vivens homo.

Non si tratta di salvare capra e cavoli, ma di cercare una via che sia accessibile al maggior numero possibile di anime. Non si possono mettere i fedeli davanti all’alternativa: o la Messa tradizionale o niente, così come non si può accusare indistintamente tutta l’attuale gerarchia cattolica di essere modernista e di celebrare in modo da far perdere la fede alla gente. È vero che le omissioni presenti nel novus ordo, a lungo andare, possono intaccare la fede fino a dissolverla, specie a causa dello stile celebrativo più diffuso; ma a chi non è in grado di fare subito il salto non si può offrire altro che la nuova Messa celebrata con la mens e lo stile dell’antica (e già questo, per molti, è un trauma). Ci vuole un’infinita pazienza per operare come, del resto, fa Dio con ognuno di noi, prendendo ciascuno per mano là dove si trova e conducendolo, al suo passo, verso il meglio; di colpo non ce la farebbe. Non poniamo perciò alla grazia limiti troppo stretti, come se la sopravvivenza della Chiesa dipendesse da ciò che facciamo noi: il Salvatore è uno solo e la Sposa appartiene a Lui.