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sabato 23 novembre 2024


Perdere la fede per difenderla?

 

 

Qui flent, tamquam non flentes (1 Cor 7, 30).

La brevità della vita e l’imminenza del giudizio spingono il cristiano – e ogni uomo ragionevole – al distacco verso le realtà di questo mondo passeggero, dove tutto, prima o poi, finisce. Per questo san Paolo esorta i fedeli di Corinto a regolarsi in base alla provvisorietà e relatività delle circostanze in cui vivono (che siano gradite o meno) e delle opportunità che le varie situazioni offrono o tolgono. Anche chi è afflitto, di conseguenza, deve comportarsi come se non lo fosse, visto che la causa della sua afflizione è transitoria; ciò che conta è il fine ultimo dell’esistenza, ossia l’eterno godimento di Dio, e il discernimento delle scelte necessarie per meritarlo. Alle pene di quaggiù, sopportate per amore Suo, è riservata una ricompensa non paragonabile ad esse (cf. Rm 8, 18).

I limiti della pazienza

Ogni autentica virtù si colloca nel mezzo tra due estremi. La pazienza, che ci fa sostenere i mali presenti, deve rimanere equidistante dalla collera dell’insofferente e dall’acquiescenza dell’ignavo. È la prudenza la virtù che ci consente di riconoscere fin dove è opportuno sopportare e a qual punto occorre invece intervenire. Dato che tutte le virtù cristiane sono radicate nella carità e da essa legate e animate, il criterio che regola la prudenza è lo zelo per l’onore divino e la ricerca del vero bene del prossimo. Dobbiamo perciò esaminare in che misura la sopportazione delle situazione avverse torni a gloria di Dio e a vantaggio degli altri, in modo che, a dispetto delle buone intenzioni, essa non finisca con l’essere dannosa, riuscendo contraddittoria.

È indubbio che mantenere un completo silenzio su errori e misfatti di coloro che guidano la Chiesa sia nocivo; al tempo stesso è pericoloso insistervi troppo, cosa che provocherebbe lo scandalo dei semplici. Su queste pagine si è sempre cercato di mantenere, a questo proposito, il giusto equilibrio, rifuggendo dagli eccessi e mirando al progresso spirituale dei lettori; ciò non implica che ci si sia sempre riusciti, dato che siamo tutti fallibili e bisognosi di luce dall’alto, mentre nessuno è esente da oscillazioni dovute alle circostanze. L’importante è essere disposti a rivedere, integrare o correggere le proprie posizioni senza assolutizzarle, ma conformandole sempre più alla verità: la norma della conoscenza è l’adaequatio mentis ad rem, l’adeguamento dell’intelletto alla realtà.

Anche nella Chiesa, purtroppo, si sconta l’effetto della penetrazione nella cultura contemporanea dell’agnosticismo e del liberalismo, severamente condannati dal Magistero, soprattutto con il Sillabo del beato Pio IX. Anche quando il primo non è formulato in modo sistematico, uno scetticismo di fondo pervade le menti degli individui, mentre la mentalità democraticista ha roso i fondamenti di ogni autorità. Così ognuno è spinto a darsi risposte da solo e a prender decisioni del tutto autonome, salvo poi sottomettersi ciecamente a qualsiasi abuso di potere, a torto legittimato come espressione della volontà popolare. Il risultato è che si obbedisce a ordini cui si deve disobbedire e ci si ribella ai superiori in ciò che, invece, è obbligatorio.

Inversione dell’ordine

Il punto estremo di questa deriva tipicamente moderna è il rifiuto dell’obbedienza legittima in nome della difesa della fede o, addirittura, la pretesa di negare la legittimità dell’autorità costituita sulla base di disquisizioni formalistiche e di un’inesistente facoltà di dirimere questioni del genere. Tale risultato è perfettamente consequenziale a false premesse e a un modo di procedere capzioso che trae conclusioni forzate in vista di un obiettivo prestabilito: partendo dalla presunzione di dover intervenire in ambiti che superano le attribuzioni del soggetto, si piega il discorso in funzione di ciò che si vuol dimostrare, con deduzioni deboli e indebiti concatenamenti. Questo modo di procedere non è rispettoso né della verità né della coscienza di chi ascolta.

Non ci si può attribuire da sé una potestà che non sia stata legittimamente conferita; senza questo principio, tanto fondamentale quanto evidente, salta ogni ordine, civile ed ecclesiastico, e si cade nell’anarchia. Gli attuali fomentatori di divisione – che ne siano consapevoli o meno – soffrono di quell’anarchismo individualistico che abbiamo ereditato dal Sessantotto, ma che è diametralmente opposto allo spirito cristiano; il suo marchio di fabbrica è tipicamente satanico: Non serviam (Ger 2, 20). Lo stesso termine che, riferito a uomini, designa il rapporto di schiavitù, riferito a Dio indica il culto che Gli è dovuto e il cui rifiuto è la radice della ribellione di Lucifero come di ogni ribellione, da lui istigata, all’ordine stabilito dal Creatore.

Correggere chi detiene l’autorità, con il dovuto rispetto e la scienza necessaria, è certamente lecito, ma non equivale a demolirla. L’ossequio dovuto all’autorità, all’opposto, non esige l’ottemperanza di qualunque comando, qualora sia contrario alla legge o esuli dalle sue competenze. Intimare un trattamento sanitario non rientra nelle attribuzioni di un superiore ecclesiastico, fosse pure il Papa; il farlo costituisce un grave abuso di potere e, se il farmaco è stato ottenuto in modo immorale, è contrario alla legge morale. Se poi ad essere imposta – o anche solo raccomandata – è l’assunzione di un ritrovato sperimentale spacciato per vaccino di cui si ignorano la reale efficacia e gli effetti avversi, siamo in presenza di un vero e proprio crimine.

Poiché la campagna pubblicitaria messa in atto da Jorge Mario Bergoglio a favore della cosiddetta vaccinazione ha influenzato miliardi di persone, convincendole a rovinarsi la salute con un liquame altamente tossico che sta causando uno sterminio senza precedenti, è evidente che la sua coscienza si è caricata di una colpa di dimensioni gigantesche che reclama una pena proporzionata. Finché però non sia stato dichiarato dalla competente autorità che non detiene legittimamente la sua carica, nessun tribunale umano lo può giudicare, dato che, lo voglia o no, è il Vicario di Gesù Cristo sulla terra. Chi ha la fede sa tuttavia che neppure lui potrà sfuggire all’infallibile giustizia divina; anzi, un giudizio più severo attende chi sta più in alto (cf. Sap 6, 5-6).

Saper aspettare

Vivere con fede non significa aver la testa zeppa di convinzioni astratte e comportarsi poi secondo la modalità mondana, a colpi di petizioni, dichiarazioni e appelli alla rivolta, bensì contemplare le situazioni contingenti dal punto di osservazione dell’eternità. Ogni prova, prima o poi, ha termine; ogni realtà umana è destinata a passare. Chi si affligge da cristiano non lo fa come se la causa della sua afflizione dovesse permanere per sempre: piange, sì, ma come chi non piange. In altre parole, non è insensibile al male, ma sa che esso non ha sostanza e non è affatto eterno; di più, è sicuro che la Provvidenza ne trarrà un bene maggiore, in vista del quale lo ha permesso. Perciò non si tormenta fino a perder la pace interiore, ma la custodisce gelosamente dalle tentazioni sotto apparenza di bene.

Questo non è un invito all’indifferenza o all’indolenza, come più volte già asserito; è piuttosto un richiamo – l’ennesimo – ad adempiere la volontà di Dio nella presente congiuntura, stando ognuno al suo posto, pregando con fiducia e perseveranza, onorando i doveri del proprio stato di vita e, in tutto ciò, offrendosi al Padre in unione alla Vittima santa e immacolata, che ogni giorno si immola sugli altari. Per poter efficacemente realizzare questo compito, bisogna tappare gli orecchi ad ogni discorso che, esplicitamente o implicitamente, neghi l’indefettibilità della Chiesa e l’onnipotente guida del suo Sposo, che non dorme mai e il cui braccio non si è accorciato. Se davvero vogliamo difendere la fede, applichiamola anzitutto a noi stessi, piuttosto che esporci al pericolo prossimo di perderla col metterci al di sopra dell'autorità divina.


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