Iam enim securis ad radicem arborum posita est.
(Mt 3, 10)

sabato 29 dicembre 2018


Semplicismo spirituale o semplicità di cuore?




Ciò che più colpisce nell’attuale temperie ecclesiale, da un estremo all’altro del ventaglio in cui si dispiegano le varie versioni del cattolicesimo odierno, è il fatto che, pur nella loro enorme diversità, sembrano accomunate da un atteggiamento simile: quello che chiamo semplicismo spirituale, ossia l’illusione, assai diffusa, che per essere un buon cristiano basti conformarsi a un modello bell’e pronto, seguendo acriticamente un insieme di indicazioni e di prassi in cui dovrebbe esprimersi la quintessenza del vero cristianesimo. Che queste realtà si presentino come un’esperienza, un cammino, un movimento, una prelatura, una fraternità, un’organizzazione… ognuna propone la sua ricetta preconfezionata – implicitamente o esplicitamente esclusiva – la cui applicazione garantirebbe la perfezione evangelica e la soluzione di tutti i problemi, risparmiando agli adepti il duro sforzo di una diuturna e penosa lotta contro i peccati e quello di una progressiva purificazione del cuore in vista della santificazione personale.

Si riscontrano due estremi: uno è l’accontentarsi di una formale esecuzione di gesti e parole la cui efficacia oggettiva, indipendente dalle disposizioni individuali, sembra rendere superflua l’adesione interiore; l’altro è il mettere tutto il peso sul coinvolgimento emotivo, quasi che la riuscita dei riti dipendesse dall’attività dell’assemblea e fosse impossibile senza la sua partecipazione, secondo una visione tipicamente protestante. La sana dottrina cattolica afferma che i Sacramenti producono la grazia ex opere operato, cioè in virtù del fatto che un ministro valido compie nel debito modo i riti prescritti; la loro fruttuosità, tuttavia, cioè la misura in cui la stessa grazia viene accolta da ciascun fedele, è determinata ex opere operantis, cioè dalle disposizioni interiori di chi li riceve e dalla sua collaborazione con la grazia medesima. Per questo è importante prepararsi con cura alla comunione e alla confessione, dedicare un congruo tempo al ringraziamento e alla penitenza, nonché connettere ad esse opere spontanee di pietà e di carità in cui la grazia possa fruttificare.

Intendiamoci: qui non si sta giudicando la coscienza del singolo credente che, in buona fede, segue una proposta con una genuina intenzione di progredire nella santità utilizzando i mezzi che gli sono forniti: in virtù di questa sincerità, che lo rende disponibile alla grazia, egli può infatti realmente avanzare verso l’obiettivo nonostante l’adesione all’una o all’altra corrente, che in molti aspetti diverge sia dalle altre che dallo stesso cattolicesimo autentico. Qui si vuol semplicemente rilevare che, spesso, l’appartenenza a detti movimenti o associazioni non scalfisce nemmeno vite immerse nel peccato grave, che in vari modi viene dissimulato, sminuito o giustificato. In questo campo si va da rozze mistificazioni della misericordia divina, di sapore decisamente luterano, a sottili e dotti sofismi con cui si legittimano farisaicamente comportamenti che a una coscienza retta appaiono di primo acchito riprovevoli, se non si ama costruire cattedrali sugli stecchini.

Chi conosca un po’ la storia ecclesiastica osserverà che, in fin dei conti, si tratta di un déjà vu. Già nel XVII e XVIII secolo, per esempio, nello stesso Ordine dei gesuiti si potevano riscontrare, nella dottrina spirituale, divergenti orientamenti sospetti di quietismo, di legalismo o di formalismo. La differenza del nostro tempo, tuttavia, consiste nel fatto che, mentre a quell’epoca i genuini tipi di spiritualità spuntavano dalla comune radice della riforma cattolica e rifluivano nello stesso alveo di una cattolicità ben identificata, oggi si fa oggettivamente fatica a cogliere l’omogeneità, sia pure differenziata, delle svariate proposte disponibili. Dall’entusiasmo pentecostale alla rigida esecuzione di riti, passando per la scrutazione della Parola, la condivisione dell’esperienza, la santificazione della carriera o la ricerca dell’unità con tutte le religioni (e altro ancora), il cristiano ordinario si sente un po’ smarrito… Certo, ci sarà senz’altro chi, immancabilmente, etichetterà tutti gli altri come eretici ingiungendo a chi vuol salvarsi l’anima, come unica possibilità, di aggregarsi a lui; ma chi desidera sinceramente amare il Signore – e non per sentimentalismo – potrebbe rimanere deluso dalla sua glaciale freddezza.

Un tempo, inoltre, tutte le pubblicazioni di soggetto teologico o ascetico-mistico erano attentamente monitorate dall’autorità ecclesiastica, che, alla bisogna, le correggeva o condannava, considerando che, in gioco, c’era la salvezza delle anime. Oggi, invece, oltre a lasciar tranquillamente circolare qualsiasi testo, la gerarchia non interviene mai, se non quando costretta da uno scandalo mediatico. Certe sedicenti organizzazioni cattoliche, però, sono internamente strutturate in modo talmente serrato e dispongono di un potere politico-finanziario così forte che quasi mai gli abusi (fossero pure “solo” il plagio e la coercizione) giungono in superficie. Qualora questo accada, come nel caso del vescovo Apuron, gli si fa comunque quadrato attorno, fino a metterlo spudoratamente accanto al Papa in mondovisione. Non si può negare che l’appartenenza a un movimento ecclesiale assicuri coperture potenti ad altissimi livelli.

Anche qui la radice del problema è una fede carente, che seleziona l’uno o l’altro aspetto della vita cristiana, rendendolo di fatto onnicomprensivo, ed eludendo regolarmente la necessità di una seria riforma di vita. Ora, un conto è lottare con debolezze che non si riesce ancora a vincere, un conto è accettare stabilmente il peccato grave nella propria esistenza confidando di poter ricorrere alla confessione. Il fatto è che un’assoluzione valida richiede un vero pentimento, il quale include il fermo proposito di non commettere più alcun peccato mortale; perché sia un proposito efficace, anziché una mera velleità, bisogna inoltre prendere la decisione di evitare le occasioni in avvenire. Come sacerdote, non potrei mai dare a qualcuno la falsa sicurezza di essere perdonato senza tale pentimento effettivo; non sarei altro che un cappellano di corte che deve compiacere il padrone o un venditore di fumo che ha paura di perdere clienti…

Ben diversa dal semplicismo è la semplicità di cuore, la quale è necessaria per accogliere la grazia ed esige che, senza artifici, si dica bianco ciò che è bianco e nero ciò che è nero. Non sempre essa, anche unita alla prudenza dei serpenti raccomandata dal Signore stesso (cf. Mt 10, 16), garantisce il successo personale o preserva da noie più o meno serie, ma è indispensabile per avere accesso alle celesti dimore: «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore” entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7, 21). Dire «Signore, Signore» può tradursi in qualunque pratica considerata fruttuosa, in rapporto alla vita spirituale, in virtù della sua semplice attuazione, a prescindere dalle reali disposizioni interiori del fedele e dalla sua effettiva prontezza a collaborare con la grazia assecondandola con generose rinunce e combattendo i propri peccati. In tal caso qualsiasi mezzo di grazia (fosse pure la Messa tradizionale), per quanto santo in se stesso, è trattato come un feticcio, cioè un oggetto dotato di un potere magico con cui basterebbe venire a contatto per ottenerne un beneficio.

Un’altra manifestazione della semplicità di cuore, per nulla secondaria, è l’obbedienza ai legittimi Pastori in ciò che è conforme alla legge divina ed ecclesiastica. Anche qui un certo fanatismo di autoconferma scantona subito per la facile scappatoia di un insindacabile giudizio secondo il quale essi o non sarebbero convertiti, o non avrebbero lo Spirito, o ancora sarebbero in blocco eretici… Agli uni occorre rammentare che il fondamento del ministero, nella Chiesa, non è affatto la santità o il fervore personale, ma la trasmissione, per via sacramentale e gerarchica, del mandato apostolico; agli altri, invece, che i fedeli non hanno l’autorità di giudicare i Pastori così da sottrarsi alla loro giurisdizione. Qualora uno osservi che il suo parroco o il suo vescovo parla o agisce in modo oggettivamente contrario alla verità rivelata e a quanto esige il suo compito, può ritenersi libero nei suoi confronti nel foro interno della sua coscienza, ma ciò non lo autorizza a comportarsi, in fin dei conti, come Martin Lutero.

Per rimanere realmente fedeli al Signore senza porsi fuori della Chiesa (in molti casi governata di fatto – non lo nego – da protestanti ultraliberali) bisogna imparare a insinuarsi nelle maglie del sistema in modo da poter continuare a predicare la sana dottrina e a fare del bene alle anime, senza partire in battaglie inutili, se non dannose, che si risolvano a detrimento della causa, confermando i pregiudizi degli avversari (che spesso colgono in noi difetti reali) e rafforzando la loro posizione. La scaltrezza evocata dal Signore, sulla quale i figli di questo mondo ci danno lezione (cf. Lc 16, 8), non è né l’infingarda codardia di chi non vuol fastidi né la calcolata dissimulazione di chi riesce a conciliare tutto e il contrario di tutto adattandosi ad ogni circostanza, bensì l’accortezza di chi comprende a cosa deve rinunciare pur di salvare l’essenziale: oltre alla retta fede e ai Sacramenti, c’è pure la comunione gerarchica.

Nella vita cristiana non si può scegliere a seconda dei gusti: per viverla in semplicità, anziché nel semplicismo, bisogna prendere il pacchetto completo – in cui, fra l’altro, c’è pure il martirio: sicuramente quello della coscienza e, se così volesse il Signore, anche quello di sangue. Ma sopra ogni cosa, quale cemento e anima di tutto, ci vuole un effettivo amore per Lui in una solida vita spirituale, non un surrogato che tenti di supplirlo per mezzo di manifestazioni o impegni collettivi. Tale amore non può nascere se non da quell’incontro intimo e sconvolgente con Gesù Cristo che in sant’Agostino fece detonare la conversione: incontro radicato nella Chiesa e compiutosi grazie alla Chiesa, ma avvenuto nelle profondità di un’anima peccatrice che scoprì in prima persona, quasi fosse unica al mondo, di esser stata da Lui creata e redenta per esser resa partecipe, fin da questa terra, della Sua vita filiale in vista dell’elevazione alla Sua gloria. Se per questo non hai mai pianto di commozione e di desiderio, tale incontro non l’hai ancora sperimentato. Chiedilo.

Ti cercò il mio volto; il tuo volto, Signore, cercherò (Sal 26, 8 Vulg.).

sabato 22 dicembre 2018


Inno alla Provvidenza




Il dogma della provvidenza racchiude un profondo mistero che va accettato per fede. I caratteri di una vera fede nella provvidenza non sono l’esitazione, la pusillanimità, il dubbio o l’ansiosa ricerca; ma piuttosto la calma interiore incrollabile, nonostante le tempeste esterne; l’umile abbandono alla volontà di Dio con il Cristo al Getsemani, nonostante l’oscurità che ci circonda; la pazienza nelle sofferenze, nonostante la loro oppressione crescente. Tutte le profondità e gli abissi, tutti gli enigmi e le tenebre, tutte le tempeste e i cataclismi che si presentano nel cosmo come nella grande storia e nella piccola vita del singolo, vengono a collocarsi, mercè questa fede, sulle braccia e sulla sapienza di un amore infinito; tutto riceve il suo posto, anche il dolore e la colpa; tutto ha il suo diritto e il suo dovere, la sua certezza e sicurezza; tutti gli avvenimenti, fino i minimi e più fuggevoli, assurgono a cure personali di un Amore onnipotente e onnisciente (Ludovico Ott, Compendio di teologia dogmatica, Torino-Roma 1964).

Chi scrive è un teologo tedesco che pochi anni prima aveva visto la sua patria devastata e intere città polverizzate nel corso del peggiore conflitto che la storia ricordi. Neanche gli orrori della Seconda Guerra Mondiale erano valsi a scalfire la sua fede; invece noi, pur non avendo mai sperimentato nulla di simile, ci sentiamo per lo più a disagio nel leggere affermazioni così nette e cristalline. Ciò non è dovuto tanto alle impietose immagini di combattimenti, calamità, crimini e disgrazie che i telegiornali ci sbattono davanti agli occhi ad ogni pasto (e a cui certuni si sono assuefatti al punto di filmare imperturbabili quegli eventi – fosse pure un suicidio – in vista di un magro guadagno), quanto al fatto che noi non abbiamo più la stessa fede. Quella convinzione incrollabile, resistente a qualsiasi evenienza, che era frutto della virtù teologale generosamente coltivata e vissuta, è stata subdolamente sostituita con una melassa sentimentaloide che, soffocando il dono celeste ricevuto nel Battesimo, ha sfornato tanti cattolici imbelli, invertebrati, narcisisti e ripiegati sulla ricerca del benessere individuale.

Nella mia adolescenza e prima giovinezza, eravamo ossessionati dalle nostre guide con l’insensata tragedia della storia, concepita come un’irredimibile catena di ingiustizie e sofferenze senza sbocco né scopo; pregare per gli uomini politici e per un migliore andamento del mondo era perciò escluso come un’inutile perdita di tempo: il progresso della società era affidato al nostro impegno, mentre la preghiera si restringeva al meditare la Parola in vista di non si sa che cosa, dato che anche un vago miglioramento morale era fuori del campo visivo. Erano, quelli, gli anni in cui i cattolici si stavano protestantizzando a un ritmo accelerato, in tutti gli aspetti della vita cristiana. Evidentemente i nostri maestri non credevano nell’infallibile Provvidenza divina, né conoscevano l’infinita sapienza con cui Dio permette il male per ricavarne un bene maggiore a nostro vantaggio e per manifestare al contempo la Sua giustizia e misericordia utilizzandolo, a seconda dei casi, come occasione di perdono, salutare correzione, giusto castigo o strumento di perfezionamento delle anime elette, oltre che accogliendo le sofferenze come materia di offerta a favore di quelle che rischiano di perdersi.

Se stiamo riscoprendo la fede di sempre, con la sua adamantina solidità e chiarezza, è per effetto di una grazia inestimabile che non meritiamo, ma che ci è stata ottenuta dal Cuore Immacolato di Maria. Ciò deve mantenerci in una profonda umiltà, ma al tempo stesso comunicarci un grande vigore nel respingere le tentazioni contro la speranza, così forti e frequenti in questo momento storico. Tutto quel che stiamo vedendo – compresi gli ingiusti provvedimenti nei confronti di vescovi e sacerdoti fedeli – è previsto dall’eternità all’interno di un disegno perfettissimo e immutabile. Questa verità di fede non rende inutili o superflui i nostri sforzi e le nostre preghiere, che sono in esso inclusi come importante elemento affidato alla nostra libera collaborazione. Dio non è un burattinaio, ma – come abbiamo appena letto – l’Amore onnipotente e onnisciente che desidera per i Suoi figli il maggior grado di gloria possibile in cielo e, a tal fine, offre loro continue opportunità di accrescerlo. Non deve essere, questo, un incentivo ad allentare l’impegno, bensì a portarlo avanti nella pace interiore e sotto la mozione dello Spirito Santo, anziché nell’impazienza e nell’acredine.

Come tutto appare d’un tratto più sereno e sopportabile, in questa luce! Quale dolce consolazione ci infonde nel cuore la fede nella Provvidenza! Credevamo forse che il nostro Padre buono avesse deciso di sottoporci a una prova così terribile senza indicarci il modo di portarne il peso con letizia e con frutto? Temevamo proprio di esser lasciati soli nella lotta alle prese con forze soverchianti? Ci sentivamo già perduti in balìa della tempesta? Sì, il nostro adorabile Gesù sembra di nuovo dormire, come quella notte, sulla barca, ma gli bastano due parole per intimare al vento e al mare di tacere e calmarsi (cf. Mc 4, 35-41). Con le nostre preghiere e penitenze noi abbiamo il potere di “svegliarlo”, cioè di affrettare il Suo intervento, visto che anch’esse sono previste nell’eterno piano divino, ma aspettano soltanto chi le compia. Quale eccelsa dignità ci è stata donata! Essere cooperatori della salvezza del mondo e del compimento dei voleri celesti! Ma in quale religione l’uomo può aspirare a tanta altezza, per non parlare della gloria che ci è promessa!

Coraggio, cari fratelli e sorelle, non abbattetevi, ma chiedete insistentemente al Signore di accrescere la vostra fede nella Provvidenza. Fissate lo sguardo sulla gloria di colui che tutto move (Paradiso, I, 1) solo per amore, essendo Egli stesso, per essenza, l’amor che move il sole e l’altre stelle (Paradiso, XXXIII, 145). O gustosissimo gheriglio racchiuso entro durissimo guscio! O luce sfolgorante che si sprigiona nel cuore delle tenebre più fitte! O gioia incontenibile partorita dal grembo di indicibile dolore! Dio tiene pronta per noi, che tanto peniamo in quest’apocalittico tornante della storia, una ricompensa ineffabile, ma può darcene un assaggio fin d’ora, se il nostro cuore, anziché ribellarsi o andare in cerca di scorciatoie umane, si lascia purificare nel crogiuolo di una sofferenza che penetra fino al midollo dell’anima. Potrà essere magari appena un brevissimo istante di consolazione, ma così sapido e intenso da alimentare per mesi, se non per anni, un’inalterabile calma interiore, una pazienza a tutta prova, un umile e amoroso abbandono alle supreme disposizioni della sapienza divina. Sono i frutti, per l’appunto, di una viva fede nell’inarrivabile provvidenza del nostro Padre celeste e delle virtù cristiane esercitate fino all’eroismo.

Vi assicuro che mai così profondamente come in questa prolungata prova ho potuto sperimentare la grandezza e la fecondità del mio sacerdozio. Quando celebro la Messa, seppur da solo, reggo sulle spalle tutto l’innumerevole gregge delle persone che porto nel cuore, di quelle affidate alle mie preghiere e di quelle con cui son venuto a contatto in un quarto di secolo di ministero: soprattutto voi, cari fedeli della Parrocchia virtuale. Elevando l’ostia consacrata imploro il Signore di riversare su tutti – comprese le anime del Purgatorio – i torrenti di misericordia che sgorgano dal Suo Cuore trafitto, che tengo tra le mani, mentre all’elevazione del calice Gli chiedo di effondere su ognuno le grazie e i benefici del Suo Sangue prezioso. È l’atto più potente e necessario che io possa compiere – e sapere questo basta a colmarmi di pace e di forza, quand’anche non potessi fare nient’altro. Vi confido che nella festa di Cristo Re, all’Hanc igitur, ho ricevuto l’intima certezza che il Signore mi accorda la salvezza di tutti coloro che sono con me “sulla barca”: «Dio ti ha fatto grazia di tutti i tuoi compagni di navigazione» (At 27, 24).

Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi! La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino! Non angustiatevi per nulla, ma in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste, con preghiere, suppliche e ringraziamenti; e la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù (Fil 4, 4-7).

sabato 15 dicembre 2018



Torniamo a Trento (e al Vaticano I)




Expecta Dominum et custodi viam eius (Sal 36, 34).

Sia nei testi del Vaticano II che nel rito della nuova Messa si trovano locuzioni e affermazioni che un cattolico sincero e ben formato non riesce proprio a digerire. Di solito il conservatore conciliare, nel disperato tentativo di salvare capra e cavoli, si appiglia con ansioso zelo al principio secondo cui chiunque abbia una retta fede interpreta spontaneamente ambiguità e stranezze in modo ortodosso mediante un’opportuna contestualizzazione effettuata a partire da una giusta precomprensione. Ma, a questo punto, sorge inevitabilmente una serie di domande: come fa chi, dopo cinquant’anni di confusione dottrinale, quella giusta precomprensione non l’ha più o non l’ha mai avuta? perché mai chi, per grazia di Dio, ne è invece ancora dotato dev’essere obbligato a questo sforzo ermeneutico, quando prega in chiesa o si forma nella fede? e per qual recondito motivo bisognava inserire tutte quelle ambiguità e stranezze, se non per aprire delle crepe che poi, sotto un’enorme pressione culturale, facessero saltare la diga?

C’è però un altro aspetto da considerare. Fin qui abbiamo parlato di esseri umani che, per sincerità, interesse o ignavia, si sono semplicemente fidati dell’autorità (anche nelle materie più sensibili), interpretando in modo positivo le sue espressioni e disposizioni come qualcosa che, per principio, non potesse contenere errori né provenire da volontà cattiva. Il diavolo, tuttavia, non funziona così. A lui non interessa affatto come i buoni cattolici comprendano ambiguità e stranezze, anche perché non può saperlo finché rimane nei loro pensieri; se invece ciò viene esplicitamente teorizzato da teologi, biblisti e liturgisti, si diverte un mondo a metterci lo zampino confondendo quelle menti spesso piene di superbia – ammesso che non si siano dichiaratamente poste al suo servizio. Ad ogni modo, l’unica cosa che per lui conta è che gli si renda pubblicamente omaggio nelle chiese e nelle facoltà teologiche: per esempio, nominandolo nel cuore della Messa come Dio dell’universo o corrompendo giovani intelletti con sofismi fumosi che li intossicano, a volte senza rimedio. A lui basta questo per vedersi riconosciuto nella Chiesa un presunto diritto di esercitare sui suoi membri un potere più o meno velato.

Come sia stato possibile un simile attentato senza precedenti al culto cattolico si può spiegare solo in parte. Bisogna certo riconoscere la diabolica abilità del perfido traditore che, in un clima di fretta scriteriata nel trattare una materia delicatissima, riuscì a imporre la propria volontà ingannando tutti, sia la commissione incaricata della riforma con il solito: «Lo vuole il Papa», sia quest’ultimo con la menzogna inversa: «Lo chiede la commissione». Ma questo non basta: perché Montini, sia pure avvertito dagli autorevoli cardinali Bacci e Ottaviani, si prestò ad approvare riluttante quello che egli stesso, in modo del tutto incoerente, definì un gran sacrificio assurdamente accettato in nome di un vantaggio inconsistente, cioè di un accesso del popolo alla liturgia che già era possibile e andava semplicemente incrementato con una formazione più capillare? Fu forse ricattato? Come tutte le rivoluzioni, anche quella liturgica calò sulla testa di clero e fedeli che non l’avevano assolutamente voluta né richiesta, ma se la videro imporre con un’intransigenza di sapore maoista.

In realtà il rito di Bugnini (la cui compilazione e imposizione è comunque illegittima, in quanto viola l’espresso divieto di san Pio V) non è stato praticamente mai osservato integralmente, visto che ogni prete lo “interpreta” a modo suo, quasi fosse un canovaccio. Ora, nel diritto, la costante inosservanza di una legge può provocarne l’abrogazione per desuetudine. La “riforma” liturgica, oltre a essersi risolta in un enorme fallimento, cadrà alla fine nel dimenticatoio perché nessuno andrà più alla Messa nuova, finché un papa di nuovo cattolico non la abolirà del tutto. È per questo che agiscono in modo così inesorabile con le realtà ecclesiali che propugnano la Messa di sempre: chiunque la riscopra (specie fra i giovani e fra quanti ritornano alla fede) ne è talmente affascinato che, dopo aver gustato il cielo, non vuol più saperne del ridicolo varietà in salsa chiesastica cui han ridotto la liturgia cattolica.

Probabilmente l’abolizione del Sacrificio non sarà effettuata per mezzo di decisioni ufficiali che possano essere impugnate o a cui si possa opporre resistenza, ma mediante un graduale slittamento della prassi. Già in molte parrocchie la Messa domenicale è sostituita da una liturgia della parola con, alla fine, la distribuzione dell’Eucaristia per mano di laici o suore. Il pretesto addotto è la scarsità di clero; può tuttavia capitare che a distanza di pochissimi chilometri tre o quattro preti concelebrino insieme. Qual è la ratio di tali provvedimenti? È arduo soffocare il sospetto che, dietro tali scelte, ci sia una visione protestante dell’assemblea liturgica o che si voglia “promuovere” il laicato a detrimento del sacerdozio. Nella diocesi del Papa – udite, udite – si è persino giunti ad affidare la guida pastorale di una parrocchia ad un diacono permanente, il quale si è trasferito in canonica con moglie e figli al seguito. Dato che ciò non è consentito dal diritto canonico, a livello giuridico si è prontamente cucita una pezza nominando un prete amministratore parrocchiale. Egli svolgerà altresì la funzione di distributore automatico di sacramenti e assoluzioni (per chi ancora ci credesse e li reclamasse), ma sotto la direzione del diacono.

Strabuzzate gli occhi? Non riuscite a capacitarvene? La notizia è consultabile in rete. Qualora qualcuno di voi abbia l’impressione che si stia rovesciando l’ordine gerarchico della Chiesa, tenga presente che all’estero i laici dettano legge anche ai vescovi già da decenni; in Italia eravamo rimasti indietro, ma stiamo cercando di ricuperare rapidamente terreno. Tuttavia, ciò che è più grave e allarmante è la sottile strategia mirante, alla lunga, a declassare il sacerdozio e a ridurre i Sacramenti ad atti facoltativi, quasi superflui, in una vita religiosa incentrata sulla “parola”, oltretutto riletta e aggiornata in modo da farle dire l’esatto opposto, nonché così selezionata da relegare nell’oblio i passi politicamente scorretti… È il compimento del progetto di Lutero, una vittoria postuma che realizza lo scopo del suo sulfureo ispiratore: non semplicemente quello di dividere la Chiesa, ma quello di pervertirla dall’interno. A Satana non cale nulla che ci sian voluti cinque secoli: di tempo ne aveva ben davanti a sé – ma ora sta giungendo al termine.

Una visione teologica della storia, fondata sulla speranza teologale, ci obbliga a non arrenderci allo sconforto, sebbene una lettura decantata e obiettiva degli avvenimenti ecclesiali dell’ultimo mezzo secolo possa indurvi. Satana si sta vendicando della cocente sconfitta di Trento e delle successive umiliazioni, ma il suo tempo è già segnato. In preda all’angoscia, Anna Katharina Emmerich scorse in visione un’assise nella quale sulla testa di ogni vescovo si posava un demonio… quelli che Leone XIII vide scendere a stormi su San Pietro? Forse siamo andati un po’ troppo lontano, ma a questo livello di comprensione delle vicende storiche elementi apparentemente disparati si raccordano e chiariscono, indicando altresì il cammino da seguire per uscire dal disastro. Bisogna riannodare la trama recisa con Trento e col Vaticano I, l’ultimo concilio veramente cattolico, rimasto incompiuto e – da quanto mi risulta – mai ufficialmente chiuso, motivo per cui la convocazione del successivo è già di per sé illegittima.

Ci sono splendidi tesori dottrinali (specie sulla fede, sulla grazia e sulla giustificazione, nonché sulla rivelazione e sul primato petrino) cui per decenni ci hanno impedito l’accesso e che non abbiamo sufficientemente assimilato, ma che sono estremamente utili sia alla nostra vita cristiana che alla corretta risoluzione delle gravi sfide che oggi ci si pongono. Ciò di cui abbiamo bisogno è di tornare a respirare l’aria pura e a bere l’acqua cristallina del Magistero perenne, che non obbliga a chissà quali sforzi interpretativi né a sfibranti controversie sul suo reale contenuto. La Madonna ci sta conducendo fuori da un’impasse che, imprigionandoci in una dimensione puramente orizzontale, ci impediva di avanzare nella fede; che Suo Figlio ci conceda così di mollare gli ormeggi verso i lidi eterni che la Chiesa ha sempre additato. Il mondo di quaggiù lo dobbiamo evangelizzare, non idolatrare; la nostra patria è il Cielo.

sabato 8 dicembre 2018


La fine dell’epoca postconciliare




Non si sputa nel piatto in cui si è mangiato. La saggezza popolare che si esprime nei proverbi ci ammonisce di non cedere a facili semplificazioni di segno opposto a quelle dei modernisti: come costoro rigettano tutto ciò che ha preceduto l’ultimo concilio quasi fosse sbagliato a priori, così i tradizionalisti puri e duri condannano per principio tutto ciò che l’ha seguito in quanto erroneo, se non eretico. Uno sguardo equo e realistico che rifugga dagli estremismi, in ogni caso, ci obbliga ad ammettere che il cibo servito nel piatto in cui la maggior parte di noi si è spiritualmente nutrito era avvelenato. Chi, avendo ricevuto un’educazione religiosa tradizionale, era dotato dell’antidoto si è potuto mantenere più o meno immune o è riuscito a spurgare il veleno; altri, che ne erano privi, si sono disintossicati per una grazia straordinaria loro concessa dal Cielo; ma la maggior parte ha smarrito la fede cattolica o non l’ha mai conosciuta per quello che è realmente.

Al di là di tutto, non possiamo non riconoscere qualche buon frutto dell’epoca postconciliare, almeno in chi ha potuto maturarlo sul ceppo antico: una maggior familiarità con la voce di Dio nella Sacra Scrittura, una più profonda adesione interiore alle verità professate, una partecipazione più consapevole alla liturgia, una sincera esigenza di autenticità morale, una relazione con il Signore più personale, ma non per questo inficiata di soggettivismo. Tuttavia, a parte il fatto che gli stessi risultati si sarebbero potuti raggiungere anche senza un concilio (per esempio, con una formazione spirituale più accurata e coinvolgente sul piano esistenziale), tali progressi si sono verificati in chi già aveva una solida base di fede, mentre chi ne era privo si è smarrito sia a livello dottrinale che a livello etico, illudendosi che per essere un buon cristiano bastasse far parte di un gruppo di preghiera o di volontariato, senza alcun riguardo per scelte di vita talvolta riprovevoli. In breve, i benefici non sembrano proporzionati agli enormi danni strutturali.

Per quanto concerne il Concilio Vaticano II in sé, a prescindere da ciò che ne è scaturito, son giunto a una serena e felice conclusione che mi ha liberato da un penoso dilemma, come pure dall’insidiosa incombenza di prendere posizione rispetto ad esso. Non è una dichiarazione formale di rifiuto di un concilio ecumenico (che sarebbe un atto scismatico), bensì una semplice presa di distanza da un evento che si è espressamente inteso come non dogmatico: ormai posso farne tranquillamente a meno. Ciò che nei suoi testi c’è di buono, infatti, proviene sostanzialmente dal Magistero precedente e lo si può attingere direttamente alle fonti senza mescolanze né inquinamenti; invece ciò che c’è di originale non tiene a un’analisi rigorosa e, di fatto, ha prodotto risultati catastrofici. Le sue novità dottrinali (come la collegialità, l’ecumenismo, il dialogo e la libertà religiosa) sono teologicamente insostenibili, mentre le innovazioni pratiche realizzate nel suo nome (come la riforma della liturgia, quella del codice e quella della vita consacrata) son sfociate in una serie di disastri senza precedenti storici: il culto cattolico convertito in memoria protestante, il diritto abolito dall’arbitrio del più forte, i voti svuotati di ogni portata reale… per non parlare dei vescovi ridotti a funzionari, delle virtù sacerdotali estinte, delle parrocchie trasformate in centri sociali, dell’indifferentismo religioso che regna a tutti i livelli e della morte di ogni serio sforzo di ricondurre i separati all’unità della Chiesa.

Un’altra presa di coscienza mi ha parimenti sollevato dall’insolubile enigma della sua natura e della sua ermeneutica. Riguardo al primo quesito, in duemila anni non c’è mai stato un concilio pastorale (neologismo peraltro mai esattamente chiarito): i venti concili ecumenici precedenti, allo scopo di rispondere a precise sfide e necessità che la Chiesa si era trovata ad affrontare, produssero tutti definizioni dottrinali e disposizioni disciplinari, senza le quali la loro convocazione sarebbe stata del tutto inutile. Riguardo al secondo, il Magistero – specie quello solenne – non deve aver bisogno di alcuna interpretazione, dato che è esso stesso un’interpretazione autorevole della Rivelazione divina, contenuta nella Scrittura e nella Tradizione. Un Magistero che abbia a sua volta bisogno di essere interpretato è in sé un fallimento e non serve a nulla: il suo compito è proprio quello di dirimere le questioni e di porre termine ai dibattiti provocati da interpretazioni diverse dei contenuti della fede. Dal punto di vista cattolico è semplicemente inconcepibile che si debba ricorrere a un’ermeneutica della continuità per comprendere rettamente dei testi da cui ci si aspetta a buon diritto che parlino da sé in modo inequivocabile, senza obbligare il lettore ad acrobazie intellettuali che ne salvino l’ortodossia e rimedino alle troppe ambiguità, che danno inevitabilmente agganci a un’ermeneutica della rottura… Un concilio deve confermare la fede, non metterla alla prova.

Eccomi dunque libero, finalmente, da un angoscioso rompicapo senza sbocco né progresso possibile. Piuttosto che sprecare le energie che mi restano a criticare o a cercar di correggere il Vaticano II, d’ora in poi le dedicherò all’approfondimento della dottrina e della liturgia di sempre; una volta superati i cinquanta ci si rende conto che, nel tempo che rimane da vivere, bisogna concentrarsi sull’essenziale, onde poter lasciare qualcosa di valido a chi viene appresso. La vita che il Signore ci concede su questa terra va impiegata in modo fruttuoso, anziché buttata a sforzarsi di uscire da un vicolo cieco che, in realtà, esiste solo a livello mentale. Accorgersi di ciò è una grazia inestimabile, ma chiunque può chiederla alla Madre di Dio e della Chiesa. Chi è cresciuto nel mondo artificiale del postconcilio, umanamente parlando, non potrebbe in alcun modo venir fuori dall’astutissima e pervasiva mistificazione in cui, a livello ecclesiale, è stato cresciuto e che ha spuntato l’acutezza del suo intelletto, fiaccato la sua forza di volontà, rinchiuso la sua esistenza in un fatalismo luterano che rende la santità impossibile… ma la Madonna è l’Onnipotente per grazia.

Permane pur sempre, certamente, l’obbligo morale di combattere l’errore; ma oggi le menti della maggioranza dei cattolici, specie dei più impegnati, sono a tal punto offuscate da decenni di discorsi fumosi che la distinzione stessa tra verità ed errore ne supera le forze, così che anche le regole più elementari della logica risultano inapplicabili. Che fare per il prossimo, allora? Con pazienza e delicatezza, aiutarlo a ragionare – se è disposto – riconoscendo l’evidenza delle cose. Molto spesso bisogna ripartire da zero, prendendo le persone per mano con grande carità, per ristabilire almeno le basi minime della ragionevolezza e della fede. L’ora presente ci chiama a lavorare in modo capillare accompagnando le persone ad una ad una, anche perché il regime da cui è oppressa la Chiesa non permette di operare allo scoperto e su larga scala. È venuto il momento di un’attività sotterranea, ma non per questo poco incisiva o fruttuosa: ci sono tantissime persone assetate di luce che aspettano soltanto di essere raggiunte da una parola chiara e decisiva.

Sarà proprio con loro che nascerà quel nuovo popolo in cui rifiorirà la Chiesa terrena, in vista del trionfo del Cuore Immacolato di Maria e dell’avvento glorioso del suo Sposo, un popolo di uomini e donne sinceramente convertiti che si innesterà sul piccolo resto che sarà rimasto fedele. Già ne vediamo le primizie in tante persone di retta coscienza che, riscoprendo la fede cattolica, si volgono spontaneamente verso il mondo della Tradizione, dove trovano quella solidità e chiarezza che è loro negata nella Chiesa postconciliare, da cui la loro onestà e rettitudine rifugge inorridita. In fin dei conti è inevitabile riconoscere che non è la stessa religione, ma un volgare surrogato che si regge su un immenso apparato burocratico vuoto di contenuti e privo di ogni tratto soprannaturale, se non fosse per i Sacramenti ancora validi. D’altra parte quale altro risultato ci si sarebbe potuti aspettare, dopo che si è proceduto a cambiare sistematicamente tutto in nome del Vaticano II? Ma quale concilio ha mai richiesto che la Chiesa si modificasse radicalmente in tutti i suoi aspetti? Solo una rivoluzione poteva ottenere un tale effetto – e di rivoluzione si è effettivamente trattato, come è stato ormai incontrovertibilmente dimostrato a livello storico.

Personalmente ho deciso di smettere di stracciarmi le vesti e gridare allo scandalo ad ogni nuova manifestazione di decadenza e corruzione di questo simulacro di Chiesa costituito da apostati ed eretici che solo in apparenza ne sono membri: è un corpo composto di cadaveri ambulanti che parlano e agiscono, sì, ma non conoscono la vita della grazia e sono perciò spiritualmente morti. Nuoce alla salute dello spirito – e non serve a nulla – accanirsi contro una carogna in avanzato stato di decomposizione: una volta diagnosticato il male e denunciati i crimini che ne sono sintomo, dobbiamo occuparci del bene delle anime, nostre e di quanti cercano la verità con cuore sincero, onde guarirle o preservarle dal contagio. Il resto è nelle mani di Dio, al quale la Chiesa terrena appartiene e che è il solo a poterla salvare: non siamo certo né io né voi, fatto salvo il compito di collaborare con la Provvidenza conservando la fede, custodendo la grazia e difendendo, nella forma consentita ad ognuno, la verità e la giustizia.

Torno a raccomandare di non mettersi da sé fuori della Chiesa visibile con atti pubblici classificabili come scisma: i traditori non aspettano altro; non facciamo il loro gioco. La necessaria visibilità della Chiesa esige che si obbedisca ai Pastori in ciò che non sia  direttamente contrario alla legge divina, almeno finché lautorità competente non li deponga o dichiari decaduti (eventualità, per ora, altamente improbabile). Mi direte giustamente che è una dura lotta: non lo nego di certo, ma ricordo a tutti voi che siamo costantemente circondati dall’innumerevole schiera degli amici del Cielo e dotati di una potenza soprannaturale che agisce nella misura della nostra fede e dei nostri meriti. Abbiamo a disposizione l’immenso tesoro della Tradizione cattolica, al quale non dobbiamo far altro che attingere quando vogliamo. Le armi per il combattimento sono nelle nostre mani e la vittoria è promessa. Sursum corda!

Accipe sanctum gladium, munus a Deo, in quo deicies adversarios populi mei (2 Mac 15, 16).

sabato 1 dicembre 2018


Non ci abbandonare alla tentazione…?




… et ne nos inducas in tentationem, sed libera nos a malo (Mt 6, 13).

Padre santo, non lasciarci indifesi nelle prove suscitate dai nostri stessi Pastori. Non permetterci di cedere alla tentazione di ritenere infallibile e obbligante ogni loro decisione. Con la nuova versione del Pater noster non ci hanno imposto una semplice modifica della traduzione corrente, ma una vera e propria alterazione (nella lettera e nel senso) della preghiera insegnataci dal Tuo dilettissimo Figlio. Potresti mai essere tu ad abbandonarci, se non lo fai nemmeno quando ti abbandoniamo noi? Esiste forse la pura possibilità che tu ti disinteressi di noi, quando siamo tentati? Saresti dunque capace di una noncuranza tale da lasciarci soli alle prese col nemico? No: è un pensiero blasfemo. Tu non hai proprio nulla da spartire – se non il nome comune – con le divinità pagane e neppure con la cinica indifferenza di Allah per la sorte degli uomini, compresi quelli che gli rendono culto. Sì, è pur vero: tutti i vescovi del mondo, mezzo secolo fa, sottoscrissero un testo in cui si afferma che i musulmani adorerebbero con noi un unico Dio (cf. Lumen gentium, 16), ma è evidente che chi lo aveva redatto fosse reo di peccato contro lo Spirito Santo e quanti lo firmarono non ebbero modo di discutere e correggere gli innumerevoli germi di errore sparsi qua e là in un testo lunghissimo, se non quelli che non poterono proprio passare inosservati.

Tu solo conosci le intenzioni dei cuori. Noi, pertanto, possiamo soltanto prender per buone quelle dichiarate a parole. Ammettiamo allora che la frase non ci indurre in tentazione fosse di scandalo a qualcuno. A parte che non ricordo di essermi mai imbattuto, in quasi venticinque anni di ministero, in un’obiezione dei fedeli a tale proposito, il responsabile del problema – qualora sussistesse – sarebbe Tuo Figlio. La traduzione italiana cui siamo abituati, infatti, traduce alla lettera (come già quella latina: ne nos inducas in tentationem) il testo greco: mḕ eisenenkēᵢs hēmàs eis peirasmón (Mt 6, 13). Il verbo eisphérō (qui coniugato alla seconda persona singolare del congiuntivo aoristo attivo) significa proprio portare dentro. D’accordo, il Maestro avrà insegnato ai discepoli la Sua preghiera in aramaico; chi volse nella koiné dell’epoca l’originale del primo Vangelo, che secondo san Girolamo fu composto hebraice, avrà scelto quel verbo per rendere il modo causativo (hiphil) probabilmente soggiacente, che non esiste nelle lingue classiche ed è quindi espresso, come pure in quelle moderne, o con un verbo di significato equivalente o con una forma perifrastica (far entrare).

A questo punto si impone – non certo per te, supremo Intelletto, ma per noi poveri mortali – una distinzione. Quando, nelle lingue semitiche, una forma verbale causativa (come nel testo in esame) è preceduta da una negazione, quest’ultima può riferirsi a due cose: o alla causalità o all’azione causata. Nel primo caso, bisogna intendere: non farci entrare in tentazione; nel secondo: fa’ che non entriamo in tentazione. La prima possibilità, intesa nel senso che Tu sia autore della tentazione, non è ammissibile: Tu non inciti alcuno a peccare e nemmeno potresti, perché ciò sarebbe assolutamente incompatibile con la Tua infinita santità, nonché con il tuo stesso essere di Sommo Bene. Questa non è una limitazione della Tua onnipotenza, giacché quest’ultima non si estende ad atti cattivi, i quali, in quanto concreta espressione del male, sono una privazione di bene e non aumentano quindi il reale potere di agire. Non è neppure una limitazione della Tua libertà, dato che in Te non esiste la libertas contrarietatis (la possibilità di scegliere tra i contrari, come bene e male), ma la libertas contradictionis (la possibilità di scegliere tra agire o non agire) e la libertas specificationis (la possibilità di scegliere tra questa o quella azione buona o indifferente).

«Nessuno, quando è tentato, dica “Sono tentato da Dio”, perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male» (Gc 1, 13). La prima ipotesi, dunque, è scartata. La tentazione non può provenire da Dio, ma dal demonio (che in tal modo esercita il suo influsso ordinario su di noi), dal mondo (con le sue massime e le sue seduzioni) o dalla carne (ossia dalla concupiscenza, che segna la nostra natura umana ferita dal peccato originale e corrotta dai peccati personali). Bisogna dunque orientarsi verso la seconda ipotesi; ma possiamo sperare che Dio ci preservi da ogni tentazione? In realtà la Scrittura e la dottrina spirituale insegnano che il Signore permette che siamo tentati, sia per mettere alla prova la nostra virtù, sia per santificarci indirettamente mediante la lotta contro il male (mentre ci santifica direttamente con la grazia che ci infonde nei Sacramenti), sia per accrescere il nostro grado di gloria in Paradiso (se ci arriveremo). Anche in questo caso, Egli permette un male in vista di un bene molto maggiore.

«Figlio, se ti presenti per servire il Signore, prepàrati alla tentazione» (Sir 2, 1). Perché allora Gesù ci ha insegnato a chiedere al Padre di fare in modo che non entriamo in tentazione? La grazia può agire in due maniere: o preservandoci dalle tentazioni o dandoci la grazia di superarle: «Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla» (1 Cor 10, 13). Ecco dunque la soluzione: Egli può sia impedire che le cause seconde – cioè create – siano per noi origine di una tentazione, sia lasciare che lo siano (e in questo senso, nel linguaggio biblico, Egli vi induce), senza però abbandonarci ad essa, ma offrendoci l’aiuto necessario per vincerla, così che non superi le nostre forze sostenute dalla grazia. Ovviamente è necessario che anche noi collaboriamo con quest’ultima, come il Signore stesso raccomandò ai tre apostoli nell’Orto degli Ulivi: «Vegliate e pregate per non cadere in tentazione» (Mt 26, 41). La preghiera non deve limitarsi a domandare la grazia di cui abbiamo bisogno per resistere, ma deve diventare il nostro ambiente vitale, uno stato permanente di unione con Dio che ci premunisca dagli assalti del maligno. La vigilanza, poi, consiste nell’evitare le occasioni e nel mantenersi attenti a tutte le possibili seduzioni.

Al momento della nostra morte vedremo distintamente da quali spaventose tentazioni saremo stati preservati e quante grazie ci saranno state concesse per vincere quelle che avremo sperimentato; ma quante ne avremo sprecate? Sta qui il reale problema e la vera sfida. Pastori della Chiesa, ve ne supplico: anziché confonderci ulteriormente le idee, insegnateci ad accogliere la grazia e a farla fruttificare fino in fondo; il Signore ne chiederà conto a voi e a noi. Oltretutto la vostra nuova traduzione del Pater inculca un’immagine di Dio falsata, equivoca, distorta… Ce n’era davvero bisogno? Ma vi rendete conto che la nostra società – compresi tanti dei vostri fedeli – è ormai perfettamente atea? Pensate di ricuperare terreno con queste “soluzioni” catastrofiche, imposte per decreto a clero e fedeli per costringerli ad obbedirvi?

Se poi vogliamo parlare di osservanza delle norme in materia di liturgia, quanti spaventosi abusi, da cinquant’anni, vengono da voi non soltanto tranquillamente tollerati, ma a volte anche incoraggiati, finché non diventano la regola? Alla consacrazione – tanto per dirne una – anche il Messale di Paolo VI prescrive che i fedeli stiano in ginocchio: perché mai in tante chiese, allora, sono obbligati dal parroco a stare in piedi, al punto che, in un caso realmente accaduto, una parrocchiana che era giustamente rimasta inginocchiata è stata pubblicamente ripresa davanti a tutti nel bel mezzo del Canone? E poi, perché mai avete ritardato la terza edizione del Messale italiano per ben sedici anni? Non l’avete forse fatto in attesa di un cambio della guardia che vi desse carta bianca, dopo aver ostinatamente disobbedito a Benedetto XVI sulla questione del pro multis? Non rispondete, per favore: avete già una pertica al posto del naso.

Cari fedeli, nobili figli del Padre celeste, non angustiatevi per nulla. Una versione del Messale non è Magistero ordinario che esiga il religioso ossequio dell’intelletto e della volontà; semmai – dato che le norme del culto hanno vigenza legale e fanno parte della legislazione ecclesiastica – è una legge liturgica, che di per sé andrebbe rispettata: ma un precetto in palese contrasto con la parola del Signore non obbliga nessuno. Non so, ma ho la sensazione che ritoccare le traduzioni sia come cercar di puntellare le Torri gemelle con un paio di paletti di legno. Qualcuno, fra i nostri zelanti Pastori, ha mica notato l’immane crollo, nella Chiesa postconciliare, della fede, delle vocazioni, della pratica religiosa e del livello morale? Padre santo, sei Tu che hai permesso una prova del genere, a nostro castigo e vantaggio. Siamo certi che non puoi abbandonarci in mezzo alla tempesta e che non ne saremo sommersi, se non per colpa nostra; ma – ti supplichiamo – affrettane la fine. Amen.

sabato 24 novembre 2018


Il più grande miracolo dei nostri tempi




Il contrasto […] sembrava compendiare l’abisso che separa la fede dei santi dal modernismo prematuramente invecchiato […]. Il più grande miracolo dei nostri tempi è che la fede cattolica sia sopravvissuta alla riforma liturgica. […] il nuovo rito funebre ci offre un’esperienza impoverita a livello simbolico, sensibilmente ricostruita, sterilizzata e terapeutica del lutto cristiano che si rifiuta di scuotersi di fronte a grandiose realtà metafisiche (Peter Kwasniewski, 2 novembre 2018).

Sono affermazioni che valgono per tutta la nuova liturgia. L’autore è un laico americano. L’attuale rito delle esequie è particolarmente paradigmatico di un globale cambiamento di prospettiva: dalla fede cattolica all’umanesimo cristiano. Effettivamente c’è un abisso. Le esequie non servono più al suffragio del defunto, ma alla consolazione dei vivi. L’orizzonte religioso non è più la beatitudine eterna, ma il benessere terreno. Il culto non è più rivolto a Dio, ma all’uomo. Al cielo si preferisce il mondo; visto che il secondo rigurgita di male, si è eliminato il problema abolendo la nozione stessa di peccato o imputandone l’origine all’opera difettosa del Creatore, o per lo meno riformulandone il concetto e restringendolo alle colpe sociali, di cui è sempre responsabile qualcun altro o l’intera società. Le straordinarie realtà soprannaturali contenute e promesse nell’annuncio evangelico sono state sistematicamente sprofondate nell’oblio; i Novissimi, del resto, sarebbero di imbarazzo nel penoso cabaret in cui sedicenti comunità cristiane celebrano sé stesse.

Questo rifiuto della trascendenza, che si sta manifestando in modo sempre più aggressivo e arrogante, è il criterio con cui un prelato massone ha selvaggiamente spogliato la liturgia cattolica di gran parte dei suoi simboli e smembrato i riti della Messa e dei Sacramenti al fine di ricostruire a tavolino un culto artificiale che proprio in quanto tale è già invecchiato, legato com’è a un determinato momento storico, e sfiorito perché privo di radici. Oltretutto la sua inesorabile imposizione non è stata affatto legittima, visto che la bolla con cui san Pio V promulgò il Messale da lui riformato (Quo primum tempore, 1570) proibisce severamente e in perpetuo di rimettervi mano, a meno che non si consideri il nuovo rito una mera alternativa a quello perenne, la cui vigenza non è mai cessata. In ogni caso, la Messa di Paolo VI è valida per la presenza della forma sacramentale dell’Eucaristia; la partecipazione ad essa soddisfa altresì al precetto festivo, in quanto è quella ordinariamente celebrata e non si possono esigere dai fedeli sforzi impossibili. Ovviamente, chi ha l’opportunità di partecipare alla Messa tradizionale fa molto bene a preferirla, piuttosto che sottoporsi alla tortura di celebrazioni che, sia nel rito stesso che nelle modalità esecutive, sfigurano l’augusto mistero del Sacrificio di Cristo e impongono spesso un arduo esercizio spirituale per conservare la fede.

Il più grande miracolo dei nostri tempi, effettivamente, è che la fede cattolica sia sopravvissuta a tale sconvolgimento, nonostante la sterilizzazione del culto. Io stesso, pur essendomi reso conto, fin dai primi anni di ministero, che qualcosa non funzionava e avendo gradualmente aperto gli occhi sulla globale mistificazione del postconcilio, non sono stato in grado di cogliere tutta la profondità del problema finché non ho riscoperto la vera Messa, così da poter misurare, in qualche modo, l’abisso che ci separa dalla fede e dalla forma mentis dei nostri padri. Nella Chiesa – e, a cascata, nella società – è avvenuta una vera e propria mutazione religiosa, culturale e, di conseguenza, anche antropologica. Dobbiamo riconoscere che non siamo più gli stessi di una volta: volenti o nolenti, abbiamo metabolizzato il modo di essere, pensare e agire dell’ambiente che ci ha plasmato. Per ricuperare la genuina identità del cristiano non basta esser tradizionalisti come se si fosse iscritti a un partito o legati a un movimento di pensiero, senza sforzarsi di riformare seriamente la propria vita e di disintossicarsi dalla cultura dominante.

Se non interiorizziamo l’amore per la Tradizione in un’autentica vita spirituale, può capitare anche a noi di annoiarci a un pontificale (non pensando che è un atto disinteressato rivolto alla gloria di Dio piuttosto che alla soddisfazione dei nostri gusti) oppure, in una Messa da Requiem, di scalpitare per la lunghezza del Dies irae cantato o per l’apparente superfluità della benedizione del tumulo (non tenendo presente che lo scopo non è il nostro godimento estetico, ma il suffragio a vantaggio di anime le cui sofferenze vengono così alleviate). Per inciso, chi volesse meditare il magnifico testo attribuito a Tommaso da Celano resterà sbalordito per la potenza espressiva delle immagini, la profondità della dottrina soggiacente, lo spessore biblico e l’intensità della preghiera. Non imitiamo i modernisti: ogni tanto dimentichiamo i nostri miseri bisogni immediati e lasciamoci trasportare in alto, verso la luce e la pace di quel Regno che ci aspetta – se ne saremo degni – e che la liturgia fa pregustare sulla terra a quanti lo cercano sopra ogni cosa.

Se potete partecipare alla Messa antica solo di rado o a costo di grandi sacrifici, andate in cerca di sacerdoti che celebrino quella nuova in modo degno e conforme alla fede. Se, con la prima domenica di Avvento, sarà imposta la traduzione balorda del Pater noster, che ve ne importa? chi vi impedisce di continuare a recitarlo come prima? Non si può obbligare nessuno ad accettare una falsificazione del testo evangelico. Non possono farvi un bel niente; il problema, semmai, sarà per i parroci che si sentiranno obbligati a violentare la propria coscienza. Faranno meglio a chiedere un anno sabbatico reiterabile, in attesa che cessi questo regime. E se vi negano la comunione in ginocchio? Rimanete piantati sul gradino dell’altare finché il prete non sia costretto a darvela come è vostro sacrosanto diritto, oppure cambiate parrocchia. All’omelia udite eresie o affermazioni scandalose? Uscite di chiesa e rientrate al Credo. Vi tocca esser spettatori di abusi liturgici? Riprendete apertamente il prete e, se ciò non sortisce alcun effetto, andate altrove.

Per rimanere in tema di pseudoversioni liturgiche in vernacolo (a cui Benedetto XVI, fra l’altro, era nettamente contrario): anziché perder tempo in simili corbellerie, i Pastori dovrebbero preoccuparsi del fatto che, tra vent’anni, in chiesa non ci verrà più nessuno, visto che i bambini e adolescenti di oggi vengon cresciuti come perfetti materialisti atei e che domani né si sposeranno né battezzeranno i figli, come del resto già fanno molti loro genitori. Ci sarebbe da ridere, ma di una cosa vi prego sul serio: al Sanctus non ripetete più Dio dell’universo, che non è affatto la traduzione di Deus Sabaoth, bensì una designazione cabalistica di Lucifero; semmai recitatelo in latino. Ancora, in nome dello zelo episcopale per le traduzioni esatte: quale rapporto linguistico esiste tra Domine, non sum dignus ut intres sub tectum meum e Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa? L’unico legame, probabilmente, è l’intento di oscurare nei fedeli la consapevolezza della Presenza reale, ma questa non è una questione filologica.

Riguardo alle voci sull’invalidazione della Messa, mantenete i nervi saldi: è altamente improbabile che facciano un passo così plateale da scatenare una reazione di massa. Se poi giungeranno davvero a pubblicare canoni zoppicanti quanto alla forma sacramentale, vorrà dire che così avrà disposto il Signore per non esser più continuamente oltraggiato nell’Eucaristia e porre fine alle innumerevoli comunioni sacrileghe con cui tante anime rischiano di dannarsi; ma voi avrete già individuato sacerdoti sicuri che non li useranno. A mio avviso, una modalità più lunga, ma meno appariscente, di rendere nulli i Sacramenti sarebbe quella seguita dagli anglicani: l’invalidazione del sacerdozio mediante una riforma del rito di ordinazione o l’ammissione di donne. Anche in quest’ultimo caso, però, uno scisma sarebbe dietro l’angolo e i rivoluzionari non vogliono esser loro a caricarsene la responsabilità davanti alla storia; piuttosto stan facendo di tutto perché i “tradizionalisti” si tolgano dai piedi di propria iniziativa compiendo un atto che li ponga fuori della comunione ecclesiale. Per favore, non diamo loro questa soddisfazione.

Ricordate che l’aver potuto conservare o ritrovare la fede, in un marasma del genere, è una grazia incommensurabile che Dio ci ha concesso: possiamo proprio chiamarla un miracolo – e dei più straordinari! Non perdiamo la serenità e la gratitudine per nessun motivo: la Chiesa è di Cristo ed è Lui a tenerla saldamente in mano; quello che sta permettendo è in vista di un bene maggiore di cui non abbiamo idea. Quando arriverà il castigo, la gente si riverserà nelle chiese e nei confessionali; allora tutti i preti a cui sarà stato proibito o limitato l’uso del Vetus Ordo, non potendo più essere controllati né sanzionati per via di circostanze eccezionali, verranno allo scoperto e grandi folle li seguiranno per mettersi spiritualmente al sicuro, non esitando un attimo ad abbandonare i mercenari modernisti, incapaci di prestare valido soccorso e di fornire risposte affidabili già in tempo di tranquillità, ma buoni solo a intrattenere o coccolare con qualche emozione a buon mercato… Non temete: le forzature innaturali, prima o poi, esauriscono la spinta e la normalità, nella vita come nella religione, riprende il suo corso. Altro che irreversibilità della riforma liturgica! Si può sbarrare un fiume, ma non spingerlo a ritroso: prima o poi tracima.

Sanctus, sanctus, sanctus Dominus Deus Sabaoth. Pleni sunt coeli et terra gloria tua. Hosanna in excelsis. Benedictus qui venit in nomine Domini. Hosanna in excelsis.

Testo integrale dell’articolo citato:


Parole profetiche: