Semplicismo
spirituale o semplicità di cuore?
Ciò che più colpisce nell’attuale
temperie ecclesiale, da un estremo all’altro del ventaglio in cui si dispiegano
le varie versioni del cattolicesimo odierno, è il fatto che, pur nella loro
enorme diversità, sembrano accomunate da un atteggiamento simile: quello che
chiamo semplicismo spirituale, ossia
l’illusione, assai diffusa, che per essere un buon cristiano basti conformarsi
a un modello bell’e pronto, seguendo acriticamente un insieme di indicazioni e
di prassi in cui dovrebbe esprimersi la quintessenza del vero cristianesimo. Che
queste realtà si presentino come un’esperienza, un cammino, un movimento, una
prelatura, una fraternità, un’organizzazione… ognuna propone la sua ricetta
preconfezionata – implicitamente o esplicitamente esclusiva – la cui
applicazione garantirebbe la perfezione evangelica e la soluzione di tutti i
problemi, risparmiando agli adepti il duro sforzo di una diuturna e penosa lotta
contro i peccati e quello di una progressiva purificazione del cuore in vista
della santificazione personale.
Si riscontrano due estremi: uno è
l’accontentarsi di una formale esecuzione di gesti e parole la cui efficacia
oggettiva, indipendente dalle disposizioni individuali, sembra rendere
superflua l’adesione interiore; l’altro è il mettere tutto il peso sul
coinvolgimento emotivo, quasi che la riuscita dei riti dipendesse dall’attività
dell’assemblea e fosse impossibile senza la sua partecipazione, secondo una
visione tipicamente protestante. La sana dottrina cattolica afferma che i
Sacramenti producono la grazia ex opere
operato, cioè in virtù del fatto che un ministro valido compie nel debito
modo i riti prescritti; la loro fruttuosità, tuttavia, cioè la misura in cui la
stessa grazia viene accolta da ciascun fedele, è determinata ex
opere operantis, cioè dalle disposizioni interiori di
chi li riceve e dalla sua collaborazione con la grazia medesima. Per questo è
importante prepararsi con cura alla comunione e alla confessione, dedicare un
congruo tempo al ringraziamento e alla penitenza, nonché connettere ad esse
opere spontanee di pietà e di carità in cui la grazia possa fruttificare.
Intendiamoci: qui non si sta giudicando
la coscienza del singolo credente che, in buona fede, segue una proposta con
una genuina intenzione di progredire nella santità utilizzando i mezzi che gli
sono forniti: in virtù di questa sincerità, che lo rende disponibile alla
grazia, egli può infatti realmente avanzare verso l’obiettivo nonostante l’adesione all’una o all’altra
corrente, che in molti aspetti diverge sia dalle altre che dallo stesso
cattolicesimo autentico. Qui si vuol semplicemente rilevare che, spesso,
l’appartenenza a detti movimenti o associazioni non scalfisce nemmeno vite
immerse nel peccato grave, che in vari modi viene dissimulato, sminuito o
giustificato. In questo campo si va da rozze mistificazioni della misericordia
divina, di sapore decisamente luterano, a sottili e dotti sofismi con cui si
legittimano farisaicamente comportamenti che a una coscienza retta appaiono di
primo acchito riprovevoli, se non si ama costruire cattedrali sugli stecchini.
Chi conosca un po’ la storia
ecclesiastica osserverà che, in fin dei conti, si tratta di un déjà vu. Già nel XVII e XVIII secolo,
per esempio, nello stesso Ordine dei gesuiti si potevano riscontrare, nella
dottrina spirituale, divergenti orientamenti sospetti di quietismo, di
legalismo o di formalismo. La differenza del nostro tempo, tuttavia, consiste
nel fatto che, mentre a quell’epoca i genuini tipi di spiritualità spuntavano
dalla comune radice della riforma cattolica e rifluivano nello stesso alveo di
una cattolicità ben identificata, oggi si fa oggettivamente fatica a cogliere
l’omogeneità, sia pure differenziata, delle svariate proposte disponibili.
Dall’entusiasmo pentecostale alla rigida esecuzione di riti, passando per la
scrutazione della Parola, la condivisione dell’esperienza, la santificazione
della carriera o la ricerca dell’unità con tutte le religioni (e altro ancora),
il cristiano ordinario si sente un po’ smarrito… Certo, ci sarà senz’altro chi,
immancabilmente, etichetterà tutti gli altri come eretici ingiungendo a chi
vuol salvarsi l’anima, come unica possibilità, di aggregarsi a lui; ma chi
desidera sinceramente amare il Signore – e non per sentimentalismo – potrebbe
rimanere deluso dalla sua glaciale freddezza.
Un tempo, inoltre, tutte le
pubblicazioni di soggetto teologico o ascetico-mistico erano attentamente
monitorate dall’autorità ecclesiastica, che, alla bisogna, le correggeva o
condannava, considerando che, in gioco, c’era la salvezza delle anime. Oggi,
invece, oltre a lasciar tranquillamente circolare qualsiasi testo, la gerarchia
non interviene mai, se non quando costretta da uno scandalo mediatico. Certe sedicenti
organizzazioni cattoliche, però, sono internamente strutturate in modo talmente
serrato e dispongono di un potere politico-finanziario così forte che quasi mai
gli abusi (fossero pure “solo” il plagio e la coercizione) giungono in
superficie. Qualora questo accada, come nel caso del vescovo Apuron, gli si fa
comunque quadrato attorno, fino a metterlo spudoratamente accanto al Papa in
mondovisione. Non si può negare che l’appartenenza a un movimento ecclesiale assicuri
coperture potenti ad altissimi livelli.
Anche qui la radice del problema è una
fede carente, che seleziona l’uno o l’altro aspetto della vita cristiana,
rendendolo di fatto onnicomprensivo, ed eludendo regolarmente la necessità di
una seria riforma di vita. Ora, un conto è lottare con debolezze che non si
riesce ancora a vincere, un conto è accettare stabilmente il peccato grave
nella propria esistenza confidando di poter ricorrere alla confessione. Il fatto
è che un’assoluzione valida richiede un vero pentimento, il quale include il
fermo proposito di non commettere più alcun peccato mortale; perché sia un
proposito efficace, anziché una mera velleità, bisogna inoltre prendere la
decisione di evitare le occasioni in avvenire. Come sacerdote, non potrei mai
dare a qualcuno la falsa sicurezza di essere perdonato senza tale pentimento
effettivo; non sarei altro che un cappellano di corte che deve compiacere il
padrone o un venditore di fumo che ha paura di perdere clienti…
Ben diversa dal semplicismo è la semplicità di cuore, la quale è necessaria
per accogliere la grazia ed esige che, senza artifici, si dica bianco ciò che è
bianco e nero ciò che è nero. Non sempre essa, anche unita alla prudenza dei serpenti raccomandata dal
Signore stesso (cf. Mt 10, 16), garantisce il successo personale o preserva da
noie più o meno serie, ma è indispensabile per avere accesso alle celesti
dimore: «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore” entrerà nel regno dei cieli,
ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7, 21). Dire
«Signore, Signore» può tradursi in qualunque pratica considerata fruttuosa, in
rapporto alla vita spirituale, in virtù della sua semplice attuazione, a
prescindere dalle reali disposizioni interiori del fedele e dalla sua effettiva
prontezza a collaborare con la grazia assecondandola con generose rinunce e combattendo
i propri peccati. In tal caso qualsiasi mezzo di grazia (fosse pure la Messa
tradizionale), per quanto santo in se stesso, è trattato come un feticcio, cioè
un oggetto dotato di un potere magico con cui basterebbe venire a contatto per
ottenerne un beneficio.
Un’altra manifestazione della semplicità
di cuore, per nulla secondaria, è l’obbedienza ai legittimi Pastori in ciò che
è conforme alla legge divina ed ecclesiastica. Anche qui un certo fanatismo di
autoconferma scantona subito per la facile scappatoia di un insindacabile
giudizio secondo il quale essi o non sarebbero convertiti, o non avrebbero lo
Spirito, o ancora sarebbero in blocco eretici… Agli uni occorre rammentare che
il fondamento del ministero, nella Chiesa, non è affatto la santità o il
fervore personale, ma la trasmissione, per via sacramentale e gerarchica, del
mandato apostolico; agli altri, invece, che i fedeli non hanno l’autorità di giudicare
i Pastori così da sottrarsi alla loro giurisdizione. Qualora uno osservi che il
suo parroco o il suo vescovo parla o agisce in modo oggettivamente contrario
alla verità rivelata e a quanto esige il suo compito, può ritenersi libero nei
suoi confronti nel foro interno della sua coscienza, ma ciò non lo autorizza a
comportarsi, in fin dei conti, come Martin Lutero.
Per rimanere realmente fedeli al Signore
senza porsi fuori della Chiesa (in molti casi governata di fatto – non lo nego
– da protestanti ultraliberali) bisogna imparare a insinuarsi nelle maglie del
sistema in modo da poter continuare a predicare la sana dottrina e a fare del
bene alle anime, senza partire in battaglie inutili, se non dannose, che si
risolvano a detrimento della causa, confermando i pregiudizi degli avversari (che
spesso colgono in noi difetti reali) e rafforzando la loro posizione. La
scaltrezza evocata dal Signore, sulla quale i figli di questo mondo ci danno lezione (cf. Lc 16, 8), non è né
l’infingarda codardia di chi non vuol fastidi né la calcolata dissimulazione di
chi riesce a conciliare tutto e il contrario di tutto adattandosi ad ogni
circostanza, bensì l’accortezza di chi comprende a cosa deve rinunciare pur di
salvare l’essenziale: oltre alla retta fede e ai Sacramenti, c’è pure la
comunione gerarchica.
Nella vita cristiana non si può
scegliere a seconda dei gusti: per viverla in semplicità, anziché nel
semplicismo, bisogna prendere il pacchetto completo – in cui, fra l’altro, c’è
pure il martirio: sicuramente quello della coscienza e, se così volesse il
Signore, anche quello di sangue. Ma sopra ogni cosa, quale cemento e anima di
tutto, ci vuole un effettivo amore per Lui in una solida vita spirituale, non
un surrogato che tenti di supplirlo per mezzo di manifestazioni o impegni
collettivi. Tale amore non può nascere se non da quell’incontro intimo e
sconvolgente con Gesù Cristo che in sant’Agostino fece detonare la conversione:
incontro radicato nella Chiesa e compiutosi grazie alla Chiesa, ma avvenuto
nelle profondità di un’anima peccatrice che scoprì in prima persona, quasi
fosse unica al mondo, di esser stata da Lui creata e redenta per esser resa
partecipe, fin da questa terra, della Sua vita filiale in vista dell’elevazione
alla Sua gloria. Se per questo non hai mai pianto di commozione e di desiderio,
tale incontro non l’hai ancora sperimentato. Chiedilo.
Ti
cercò il mio volto; il tuo volto, Signore, cercherò
(Sal 26, 8 Vulg.).