Iam enim securis ad radicem arborum posita est.
(Mt 3, 10)

sabato 28 ottobre 2017


Dalla ricerca di senso alla raccolta differenziata



La cultura contemporanea si è arrovellata per decenni intorno alla domanda sul senso dell’umano esistere, l’heideggeriano Dasein (esserci, stare al mondo). L’essere umano che si trova a vivere in una realtà angosciosa perché priva di Dio – che ne è stato messo al bando – brancola nel buio in cerca di un senso da dare alla propria esistenza, che i francesi condensano efficacemente in tre parole del gergo familiare: métro, boulot, dodo (metropolitana, lavoro, a nanna). L’uomo medievale riderebbe di gusto – non senza un velo di perplessità circa le nostre capacità intellettive – di questa tormentosa ricerca: per lui tutto ciò che esiste era ordinato a Dio, principio e fine di tutte le cose; la vita non era altro che un percorso verso un’eternità di beatitudine o di dannazione che noi stessi scegliamo. Nella sua Weltanschauung, perciò, tutto aveva un posto preciso e ogni attività umana un obiettivo chiaro e noto a chiunque, dal servo della gleba all’imperatore e al papa.

D’accordo: l’uomo del Medioevo dovrebbe pur avere un po’ di indulgenza nei confronti della malcapitata umanità dell’èra postmoderna: la vita nelle odierne società occidentali è diventata una tremenda schiavitù in cui miliardi di persone sono imprigionate in un implacabile ingranaggio di produzione, trasporto e consumo, con servizi e infrastrutture annesse. Si campa per produrre e consumare all’interno di un sistema impersonale che funziona secondo leggi proprie e senza alcun effettivo vantaggio per chi forzosamente lo serve; esso non è più controllato da legittime istituzioni umane, ma unicamente da una ristrettissima élite che ha in mano le leve del comando, gli organi di comunicazione e l’elaborazione del sapere. Questa struttura alienante e oppressiva si è imposta mediante le illusioni della democrazia: liberté, fraternité, égalité sono i grimaldelli con cui la massoneria ci ha aperto il cranio e sottratto il cervello.

In modo del tutto funzionale all’instaurazione di questo orrendo regime totalitario che ci impedisce finanche di pensare in modo autonomo, il mondo della “cultura” – consapevole o meno – ci ha ammorbati per decenni con la letteratura dell’assurdo, le proposte di nichilisti immorali (in buona parte sodomiti e pederasti), la psicanalisi atea e il presunto complesso di Edipo, l’introspezione solipsistica e altre forme di autoerotismo mentale, tutti sintomi tipici di una società decadente in avanzato stato di decomposizione. Il peggio è che i signori del potere, menandoci per il naso in questo labirinto senza via d’uscita, sono riusciti a convincere una bella fetta di questa società inebetita che non ci siano differenze sostanziali tra l’uomo e la donna (scusate se, in mancanza di meglio, li chiamo ancora così), ma che esistano tante varianti sessuali quanto quelle che i manuali di un’epoca poi non così lontana classificavano sotto la voce perversioni – più tutte quelle inventate nel frattempo. I nostri adolescenti adescati sulla Rete hanno davvero opportunità insperate per la mia generazione, che ora può giustamente rifarsi con loro…

Ma l’ignobile beffa dei padroni del mondo non si ferma certo qui. Un rompicapo insolubile con cui ci ossessionano da qualche anno è quello della… spazzatura. Selezionarla è diventato un imperativo categorico la cui omissione, in certi confessionali, è addirittura peccato mortale (mentre l’adulterio è stato derubricato dalla suprema autorità a fragilità o bene parziale in via di perfezionamento). Siccome i regolamenti, sempre più cavillosi, variano da un comune all’altro, si sta diffondendo a macchia d’olio, almeno nei piccoli centri, un’attività illecita di trasporto e scarico di rifiuti in comuni limitrofi. Le amministrazioni pubbliche stanno perciò prendendo severi provvedimenti per scoraggiare questa pratica criminosa, installando telecamere nei pressi dei cassonetti di loro competenza e infliggendo pesantissime multe ai trasgressori. In certi luoghi tale grave piaga sociale ha dato luogo a una vera caccia all’uomo. Nel frattempo scassinatori, rapinatori e stupratori di ogni provenienza ed etnia scorrazzano indisturbati su tutto il territorio nazionale, seminando il terrore nelle case e nelle strade.

Nessuno ci spiega, però, che la raccolta differenziata è un vero e proprio business, mentre la mafia ricava esorbitanti guadagni dal trasporto e smaltimento dei rifiuti. Stranamente, poi, si parla poco dei termovalorizzatori che, a Brescia e ad Acerra, trasformano la spazzatura in energia, ancor meno degli imballaggi alternativi alla plastica e all’alluminio. A Roma, diventata una discarica a cielo aperto (anche nel centro storico, mèta di milioni di turisti), preferiscono spedire i rifiuti al Nord, con spese – e tasse – altissime, per non parlare della corruzione e della mala gestione con cui i soliti papponi continuano a prosperare con qualsiasi giunta. Ma gli amministratori non hanno forse validi interessi personali per andare avanti così? Per curarli ancora meglio, dovrebbero prendere l’esempio dai loro colleghi, ben più civili, di altri Paesi d’Europa dove si provvede pure agli escrementi dei cani, per i quali i comuni forniscono appositi sacchetti a norma di legge (così almeno non se li ritrovano sotto le scarpe).

D’altronde, che cosa mai pretendiamo? Una volta rimossi dall’orizzonte la sorgente e il fine della vita, nonché principio assoluto dell’ordine sociale, si specula pure sulla spazzatura e i poveri mortali, assillati dalla preoccupazione di non fare errori nel dividerla, hanno smesso di interrogarsi sul senso del loro esistere. In un frangente del genere, nessuno medita la ribellione? In regimi iniqui e disumanizzanti è moralmente più che legittimo, tanto più se si è arrivati al quarto governo non uscito dalle urne e c’è un Parlamento eletto con una legge incostituzionale. Se anche solo la metà della popolazione decidesse di non stare più al gioco e di non pagare le multe, che potrebbero fare? Mettere mezza Italia in galera o in mezzo alla strada? Altrettanto dicasi per altre vergognose imposizioni, come le diseguali vessazioni del fisco, che a un lavoratore dipendente succhiano alla fine più di metà dello stipendio, mentre i dossier dei grandi evasori non sono accessibili neanche alla Guardia di Finanza. La storia ci insegna che, quando una popolazione arriva a un certo grado di esasperazione, qualsiasi regime finisce col crollare, soprattutto se è una repubblica delle banane. Sarebbe ora di cominciare a pensarci seriamente – non prima, però, di aver ritrovato nella fede cattolica il senso che l’esistenza ha già e ha sempre avuto.

sabato 21 ottobre 2017


Il silenzio che salva



Deus cordis mei, et pars mea Deus in aeternum (Sal 72, 26).

Molte controversie risulterebbero meno intricate, così come si eviterebbero tante deviazioni, se tenessimo tutti presente un principio che, per grazia, compresi negli anni del liceo: le questioni che ci poniamo su Dio sono problemi per noi, ma non per Lui. La realtà divina, essendo assolutamente indivisa, è esente da qualsiasi tensione, ma per la limitatezza del nostro intelletto essa ci appare complicata, costringendoci a ragionamenti complessi che a volte finiscono in paradossi e antinomie; Dio però, in se stesso, è semplice. È consolante costatare che san Tommaso, parlando di Lui nella prima parte della Summa, richiami spesso i limiti della nostra mente e i condizionamenti dovuti al nostro modo di apprendere, che procede spesso per via negativa, non avendo noi esperienza diretta di ciò che è in-finito, in-causato, in-terminabile… Qualsiasi cosa diciamo di Lui, di conseguenza, andrà sempre intesa analogicamente, senza dimenticare che la Sua realtà eccede infinitamente tutto ciò che possiamo conoscerne.

Non mi interessa sentirmi un dio per quel poco che so o che capisco (che fino alla visione beatifica è e sarà sempre un nulla rispetto a ciò che non so e non capisco); non mi importa niente apparire qualcuno agli occhi della gente, se un giorno cadrò nell’oblio perché non avrò amato. Non c’è nulla al mondo che possa saziarmi, se non Dio. Io voglio Lui e perdermi in Lui. Qualsiasi conoscenza io possa acquisirne, non potrà mai essere altro che un trampolino per tuffarmi nel Suo abisso di indicibile silenzio. Quella conoscenza è certamente vera in quanto fondata sulla ragione e sulla fede, che Dio stesso mi ha dato come due ali perché io potessi arrivare a Lui con sicurezza, evitando di scambiarlo con una proiezione della mia psiche o un teorema della mia mente; essa, tuttavia, mi deve condurre a una viva relazione con Lui che mi prepari a contemplarlo a faccia a faccia, ardendo in eterno d’amore e gratitudine per l’immensa degnazione di questo munificentissimo Signore che ha pensato di crearmi e di donarsi a me.

Molteplici trappole, però, insidiano il cammino di chi Lo desidera sopra ogni cosa. Ci sono tante ingannevoli scorciatoie che si presentano come risposte immediate alla sete di chi cerca Dio. Oggi, come già visto, è facile scambiarlo per un’idea, una velleità o un’emozione, relegandolo in un rito, un impegno o una bella teoria che alla fine appagano unicamente l’io, questo moccioso narciso e accentratore che si rifiuta di convertirsi, mutando continuamente pelle per adattarsi a tutte le evenienze. Nella Sua misericordia il Signore concede, a chi è disposto a crescere, delle occasioni di purificazione che ammansiscano l’io peccatore e lo riplasmino come nuova creatura. È il morire a sé stessi tipico dell’ascesi cristiana, che consiste nella collaborazione umana volta a riconoscere, accogliere e assecondare l’opera divina: penitenza, mortificazione, accettazione delle contrarietà e umiliazioni. San Paolo non si stanca di esortare a far morire le opere del corpo, cioè le espressioni dell’uomo vecchio, per dare effetto alla rinascita battesimale, avvenuta nel mistero, e sviluppare progressivamente il dono della vita nuova, nutrita dalla grazia.

Proprio sotto questo aspetto, la mia generazione ha conosciuto un’insidia particolarmente subdola, che annulla a priori il pensiero stesso di dover lottare contro il peccato e progredire nella vita cristiana, lasciando così la grazia senza frutto. I teologi che l’hanno teorizzata come una scoperta le hanno perfino coniato un nome: l’escatologia realizzata. In soldoni, quello che ci è promesso nel Vangelo è già presente nella nostra esperienza. Questo può esser vero se si aggiunge: in germe; altrimenti l’idea è contraddittoria: ciò che è atteso non può essere già compiuto; «ciò che si spera, se visto, non è più speranza» (Rm 8, 24). Basta un piccolo ragionamento per demolire certe fantasie; eppure è proprio quel piccolo ragionamento che oggi sembra a molti così arduo, anche perché nessuno insegna più a ragionare, come faceva san Tommaso con i suoi allievi. Il fatto è che quell’elementare uso del raziocinio metterebbe in crisi interi movimenti ecclesiali che fondano la loro proposta proprio sull’illusione che quanto promesso da Gesù sia già realtà piena – per i membri del movimento, ovviamente, per gli altri no.

Nella mia giovinezza si viveva immersi in quest’aura da Gerusalemme celeste da cui, volenti o nolenti, s’era tutti più o meno contagiati, tanto da chiedersi in sordina a che mai servissero ancora i Sacramenti (se non ad autocelebrarsi), mentre l’osservanza dei Comandamenti era un fantasma del passato. Poco importa che le storie personali di molti ferventi cattolici di allora siano attualmente cumuli di macerie: evocare tali soggetti non è bon ton; semmai si rimpiange con nostalgia il bel tempo andato o ci si accanisce a reiterare le stesse esperienze fallimentari, in cui si era pur convinti di aver trovato tutto. Se poi la dissonanza con la realtà effettiva raggiunge livelli intollerabili, ci si butta dai sogni ad occhi aperti in una paranoia apocalittica che rileva in ogni soffio di vento un segno certo della catastrofe imminente, matrice dell’universale palingenesi. Ma di accettare la necessaria purificazione dell’io con umiltà e pazienza, neanche a parlarne: se il paradiso in terra, che credevamo realizzato, non c’è ancora, bisogna che arrivi quanto prima, almeno entro il 2017; lo dice la Madonna…

Non sto dicendo che l’attuale situazione del mondo e della Chiesa non sia semplicemente tragica e che non ci si debba prudentemente preparare a probabili eventi catastrofici, come uno scisma, una guerra mondiale o un cataclisma naturale; una purificazione generale è comunque necessaria, ma è anche invocata dall’anelito comune a una liberazione dall’oppressione del male, che ha toccato livelli mai visti e assunto forme inedite. Il fatto è che non potrà resistere alla prova se non chi sarà intimamente unito a Dio perché si sarà personalmente purificato e avrà trovato unicamente in Lui tutto il proprio bene. Vedete che, alla fine, la mistica (quella autentica) è l’unica via d’uscita. Una vita spirituale completamente estroflessa in dispute teologiche o in una spasmodica ricerca di notizie, profezie e presunti messaggi è una vera e propria trappola del diavolo, come già l’escatologia realizzata di certi teologi di grido: l’uomo interiore, in questo modo, viene lasciato morire di inedia; nel momento in cui dovrà reagire, si scoprirà estinto.

Rientra nel cuore. Non è intimismo. Nel cuore dei battezzati abita la Trinità incorruttibile: immergiti nella Sua vita ineffabile; anticipa realmente, per quanto possibile su questa terra, il Paradiso. Porgi l’orecchio alla voce del silenzio, a quell’unica parola impronunciabile che comunica la vita a chi la accoglie in cuore tacito e puro. Non fuggire da te stesso, ma riscopri il tuo vero io, quello che da tutta l’eternità era nella mente di Dio e che per tutta l’eternità sei chiamato ad essere. Lasciati purificare dalla viva fiamma della carità divina, non temere di perderti; o, meglio, acconsenti a perderti per poterti ritrovare. San Nicolao della Flüe, della cui nascita si celebra il sesto centenario, per tutta la vita non ebbe altro anelito che quello di essere uno in Dio, ciò che chiamava einig wesen. Per poterlo realizzare, Gli rivolgeva continuamente questa preghiera: «Mio Signore e mio Dio, togli da me tutto ciò che mi allontana da te. Mio Signore e mio Dio, dammi tutto ciò che porta a te. Mio Signore e mio Dio, toglimi a me e dammi tutto a te».

sabato 14 ottobre 2017


Teologia in ginocchio



Nel reagire a un estremo, non bisogna cadere nell’estremo opposto. Per mantenere una retta fede, bisogna respingere sia le sciocchezze di chi ha studiato una “teologia” modernista, sia le forzature teologiche di chi ha fatto dell’antimodernismo una ragione di vita. La seconda opzione è molto attraente per chi è esacerbato dalla deriva apostatica di buona parte degli ambienti ecclesiali o dalle contraffazioni di una cattolicità puramente nominale e di facciata. Tuttavia il cristiano non vive unicamente per combattere le deviazioni, bensì per amare Dio e il prossimo portando a tutti la luce del Vangelo e, per mezzo di essa, schiudendo l’accesso al bene più alto cui si possa oggettivamente aspirare, l’unione con Dio. Se però lo zelo di propagare la verità si riduce a un indottrinamento più o meno elegantemente camuffato, ciò non è rispettoso né del mistero di Dio né della coscienza del prossimo, cosa che la carità presuppone come naturale fondamento.

Su questa china si corre un rischio ancora più profondo: quello di dimenticare che noi crediamo non in una dottrina, ma nel Dio vivente. La sana dottrina è indispensabile per essere certi di conoscere il vero Dio, ma questa conoscenza deve sfociare in un incontro personale: quel Dio, infatti, si è rivelato all’uomo ed è intervenuto nella sua storia perché vuol essere accolto e amato con la mente, con il cuore e con la vita. Questo Suo desiderio non è certo dovuto a qualche carenza che la creatura debba in qualche modo colmare, come indebitamente ci rinfaccia l’Islam a partire dalla concezione di una divinità così lontana, inaccessibile e arbitraria che non può né amare l’uomo né essere da lui riamata, limitandosi a premiare i suoi fedeli con una grottesca caricatura del paradiso terrestre. In realtà la divina gelosia di cui parla la Bibbia e, sulla sua scorta, i mistici non è una proiezione antropomorfica, ma un modo di esprimere l’esigenza, propria dell’amore, di trovare nell’amato una corrispondenza esclusiva che permetta all’amore stesso di compiersi. Nel caso del Dio che si è autorivelato, però, il vantaggio è tutto per l’uomo, dato che nella Trinità la dinamica di dono e risposta che connota l’amore è già perfettamente realizzata.

Il punto d’arrivo dell’atto di fede è Dio stesso, non l’enunciato dogmatico che ti dice qualcosa di Lui; l’enunciato è necessario per credere rettamente in Dio, ma è a Lui che devi arrivare con la fede, la quale – se è autentica – fa germinare in te la carità e nutre la speranza. Non serve a nulla studiare nel modo più sottile le processioni e le relazioni trinitarie, se questo non scatena in te l’anelito ad essere sempre più coinvolto, per inestimabile grazia, in quell’ineffabile circolazione d’amore. Non giova a nulla conoscere in modo perfettamente ortodosso la persona di Cristo e i rapporti tra le due nature, se la Sua vita divino-umana, di cui sei reso partecipe dai Sacramenti, non si sviluppa in te fino alla sua pienezza di santità vissuta. Non c’è alcun vantaggio a possedere con matematica precisione una teologia impeccabile, se questa conoscenza, finendo con l’alimentare un’insensata superbia, non ti sprofonda nell’umiltà di un povero peccatore che si riconosce graziato e sommerso di doni assolutamente immeritati.

L’intellettualismo, di una sponda o dell’altra, soffoca l’unione con Dio, che è un anticipo della visione beatifica nei limiti della nostra condizione terrena. I suoi frutti, a seconda dell’ambiente, sono il sentimentalismo, il volontarismo e il formalismo. Il primo, di solito, nasconde una paurosa ignoranza religiosa da rigetto e, molto spesso, una moralità quanto meno dubbia, piena di sconti e compromessi giustificati con un falso fervore. Il secondo crede di risolvere tutti i problemi con poco illuminati sforzi ascetici o con un attivismo sociale del tutto analogo a quello di un non-credente. Il terzo sostituisce la relazione con Dio con una serie di prestazioni rituali che dovrebbero appagarlo e zittirlo. In tutti e tre i casi l’uomo si soddisfa da sé in una dinamica solipsistica, ma quel che è peggio è che il Dio vivente, in definitiva, potrebbe anche non esistere – a rigor di logica, anzi, sarebbe meglio che non ci fosse, perché fa saltare tutto il sistema. È molto più comodo rimpiazzarlo con un’idea, una velleità o un’emozione.

≈≈≈

Naturalmente c’è una bella differenza tra il fare teologia in ginocchio e il mettere la teologia in ginocchio. La prima via è quella dei Padri della Chiesa, dei rappresentanti della teologia monastica e dei teologi che si sono fatti santi. La seconda è quella di una pseudoteologia razionalistica, storicistica e revisionistica completamente succube di una certa scuola tedesca che ha culturalmente colonizzato, fra l’altro, anche l’America Latina. La falsa teologia germanica è a sua volta prona alla cattiva filosofia di Kant, Hegel e Heidegger, che è assolutamente incompatibile con la visione cristiana, per il semplice motivo che è contraria alla retta ragione. Pur con le debite differenze, il pensiero di questi autori sposta tutto il peso, nel processo conoscitivo, dalla realtà oggettiva all’intelletto umano, che finisce con l’essere determinato dalla storicità. Se infatti i trascendentali e le categorie che rendono possibile la conoscenza esistono soltanto nella mente, senza essere ancorati all’essere, la realtà si trasforma di pari passo con l’evoluzione delle culture e l’identità dell’uomo si dissolve in un caleidoscopio di opinioni cangianti.

Senza Karl Rahner e la sua svolta antropologica, in poche parole, non ci sarebbe stato l’uomo di Santa Marta, ma nemmeno il gender. Il Concilio Vaticano II avrebbe riaffermato la verità cattolica in perfetta continuità con la Tradizione (senza costringere a tripli salti mortali con avvitamento) e la riforma liturgica si sarebbe limitata a qualche indispensabile adattamento, piuttosto che procedere a quel totale rifacimento del rito romano che di fatto è risultata. Solo così, d’altronde, è stato possibile sloggiarne Cristo per intronizzare, al Suo posto, l’uomo – e l’uomo peccatore, non quello redento, l’uomo che si ostina spudoratamente nei suoi peccati e pretende che il buon Dio gli dica: «Bravo!». Ma quel “Dio” – come già evidenziato – è soltanto un’idea, una velleità o un’emozione funzionali al godimento solitario dell’individuo, alla sua autogiustificazione e autoesaltazione. In fin dei conti, questo non è altro che l’apice di una parabola iniziata con Lutero.

Anche combattendo accanitamente il modernismo si può tuttavia finire, senza rendersene conto, col mettere il proprio piccolo ego e la propria teologia al posto del Dio vivente. Alla fin fine, l’esito pratico non differisce poi di molto nella sostanza; le vie saranno diverse, ma, se ti fanno ritrovare più o meno allo stesso punto, un’ombra di sospetto ti deve pur venire… Tale accecamento si verifica ogniqualvolta si erige una costruzione intellettuale allo scopo di far apparire legittimi comportamenti intrinsecamente cattivi. Per chi si è costituito paladino della verità cattolica, è una crassa contraddizione che salta agli occhi di chiunque abbia conservato una mente limpida e lineare, ma viene subdolamente mimetizzata con un enorme apparato erudito e argomentativo che spiazza qualunque non-specialista, sebbene il buon senso gli suggerisca che qualcosa non funziona. Così, in nome della Tradizione, si può tranquillamente dichiarare a parole un’obbedienza al Papa meramente nominale e al tempo stesso, persistendo pervicacemente in una situazione irregolare con il rifiuto di qualsiasi accordo, dispiegare tutto un apostolato totalmente sganciato dalla legittima giurisdizione dei vescovi che sono in comunione con lui.

Monsignor Lefebvre, pur avendo avuto l’incommensurabile merito di conservare la Messa tradizionale a beneficio di noi tutti, a partire da un certo momento sembrò agire come se la Chiesa sopravvivesse unicamente nella sua opera, quasi ne fosse lui il salvatore; questa stessa impressione continuano a dare i suoi discepoli. A Dio solo, ovviamente, spetta giudicare le anime, ma noi non possiamo esimerci dal valutare gli atti degli uomini per discernere la via da seguire ed evitare le false piste. Il sentirsi unici depositari di una verità salvifica che tutti gli altri avrebbero smarrito o falsificato può portare alla perdizione: se infatti consideri perduti quanti non riconoscono senza riserve la missione divina che ti sei attribuito da solo, sei tu a rischiare di perderti, perché non dài più ascolto a nessuno. Se poi poni ogni tuo pensiero a rinforzo dell’unico puntello su cui poggia tutto il tuo edificio (in questo caso, un presunto stato di necessità da te stesso decretato), sarà davvero difficile che ti accorga della trappola, ma ti ci sei messo tu stesso.

Tieni saldi i miei passi nei tuoi sentieri, perché i miei piedi non vacillino. Alla fine il tuo insegnamento mi ha corretto e tu stesso continuerai ad istruirmi (Sal 16, 5; 17, 36 Vulg.).

sabato 7 ottobre 2017


Col senno di poi



Da giovane, nella mia semplicità, non avevo pre-giudizi. Poi, a forza di prender fregature, ho cominciato ad avere dei post-giudizi. Attratto da ogni realtà in cui scorgevo del bene o una traccia di Dio, tendevo a trascurarne gli aspetti problematici o a scusarli con la speranza che si evolvessero in meglio. In età matura ho dovuto però riconoscere che i lati carenti o negativi di un’esperienza sono dovuti, il più delle volte, a cattiva volontà o a rifiuto di correggersi. Se si trattasse soltanto di ingenuità, immaturità o scarsa formazione si potrebbe sperare in un progresso; ma quando un gruppo persiste nell’errore o addirittura lo difende, bisogna concludere che, a monte, c’è una scelta deliberata: la radice stessa è velenosa, nonostante porti frutti a prima vista buoni. Una volta presa coscienza di questo, è moralmente obbligatorio dissociarsi.

Nella mia esistenza credo di aver preso visione più o meno di tutto il ventaglio delle odierne realtà ecclesiali, da un estremo all’altro: apostolati tradizionali o innovativi, forme di vita consacrata antiche e nuove, fenomeni mistici o pseudomistici (quasi mai riconosciuti dall’autorità ecclesiastica, ma approvati a furor di popolo), associazioni, movimenti, cenacoli, fraternità, conventicole et similia… Ho cercato, cercato e ancora cercato una proposta che si potesse abbracciare senza riserve, finché, costretto dagli eventi, non mi sono messo in proprio, facendo tesoro dell’esperienza così da non ripetere gli errori osservati altrove. Le uniche realtà che mi ispirano fiducia sono aggregazioni di fedeli laici che si organizzano spontaneamente per poter sopravvivere come possono in questo deserto spirituale: lo stesso mio anelito. In queste iniziative – che hanno ovviamente bisogno di sacerdoti (fedeli, non fanatici) – mi par di scorgere la mano di Dio; eppure anche in questo caso devo dare qualche avvertimento, perché non mancano le insidie.

Un pericolo molto grave è rappresentato dai corsi di formazione offerti da gruppi tradizionalisti che impongono la propria versione della dottrina come assolutamente conforme alla verità rivelata e, quindi, come l’unica legittima, quando invece è deformata, in molti punti, da evidenti forzature teologiche miranti a giustificare l’ingiustificabile, cioè una situazione di fatto che è sostanzialmente scismatica (1). Oltre al contenuto, il metodo stesso è biasimevole: non è onesto imbottire la testa delle proprie idee a persone che non hanno gli strumenti per valutare criticamente quanto odono, ma che sono anzi preventivamente dissuase dal porsi domande in proposito come se fosse inevitabilmente un peccato contro la fede. Per poter credere – è san Tommaso d’Aquino ad insegnarlo – la persona umana ha bisogno di maturare nella sua coscienza un giudizio di credendità, cioè di trarre in foro interno la conclusione che una proposizione è vera e va quindi creduta.

A questa sorta di lavaggio del cervello si accompagna un formalismo estremo che spegne e persino scoraggia qualsiasi relazione personale con Dio, sospettata aprioristicamente di essere un fomite di perniciose velleità soggettivistiche e sostituita da un’ottusa e scrupolosa ottemperanza ad obblighi rituali. Il dramma è che proprio tale formalismo ha permesso ai novatori di imporre la nuova Messa soffocando qualunque resistenza. Se infatti l’importante è soltanto la forma e bisogna sempre e comunque obbedire all’autorità costituita, qualsiasi cosa essa richieda, senza porsi troppe domande, allora forma per forma, antica o nuova, l’una vale l’altra; basta che sia sancita dall’autorità. Come riportavo qualche settimana fa, già negli anni Quaranta e Cinquanta sacerdoti santi e avveduti avevano individuato proprio qui la causa principale del generale inaridimento della fede. Se la riforma liturgica ha avuto effetti ancor più catastrofici, dando il colpo di grazia a una vita ecclesiale già in profonda crisi, la soluzione non può certo consistere nel ripristinare il sistema precedente.

Ancor più grave è il pericolo rappresentato – torno a ribadirlo – dallo stuolo di presunti veggenti che spuntano ovunque, mettendosi immediatamente a divulgare (con tanto di siti e pubblicazioni varie) pretese rivelazioni celesti ancor prima di sottoporle alla legittima autorità ecclesiastica. I destinatari di apparizioni riconosciute non si sono mai comportati così, attirando l’attenzione prevalentemente su di sé e proponendosi come una fonte di messaggi la cui conoscenza e osservanza sarebbe indispensabile alla salvezza. La Chiesa è sempre stata estremamente cauta di fronte a simili fenomeni; con la sua millenaria esperienza sa fin troppo bene che le probabilità di inganno umano o, peggio, diabolico sono altissime, ragion per cui procede in materia con i piedi di piombo. Prima di ammettere la soprannaturalità di un evento effettua di norma, nella persona del vescovo diocesano, verifiche accuratissime volte ad escludere una contraffazione, che in genere si presume fino a che non sia dimostrato il contrario. Se poi, a un certo punto, si scopre fortuitamente (grazie a un giornalista smaliziato) l’altarino della doppia vita o doppia personalità del “veggente”, il discernimento può considerarsi definitivamente chiuso.

Oltre al pericolo di lasciarsi fuorviare, sia pure in buona fede, da falsi messaggi celesti, c’è un rischio molto più sottile e, quindi, inavvertito. La fede del cristiano poggia sull’autorità di Dio che rivela e della Chiesa che parla in Suo nome. Se decido in modo autonomo di dare credito a una presunta rivelazione, faccio prevalere il mio giudizio privato su quello di chi tiene il posto di Dio e, in definitiva, su quello di Dio stesso. In altre parole, sono un potenziale eretico; commetto lo stesso errore che hanno commesso Valdo, Lutero, Calvino e, prima di loro, Ario, Nestorio, Eutiche e compagnia cantante. Il giudizio di credendità non significa che sono io a sancire, con i miei ragionamenti, la credibilità di una verità di fede o a stabilirne la giusta interpretazione, così da poterla ammettere nel mio personale sistema di pensiero, ma che la mia ragione, sotto l’azione dello Spirito Santo, coglie l’evidenza della verità rivelata nella forma e nel senso in cui la Chiesa l’ha sempre insegnata, così che la mia coscienza si riconosce obbligata ad accoglierla.

Ancora una volta è in gioco la fede stessa, che si può perdere proprio nell’intento di difenderla o nell’illusione di ampliarla. In un caso come nell’altro prevale il giudizio privato – l’esatto opposto di ciò che avviene nell’atto di fede, precisamente ciò che si verifica, invece, nell’eresia. Può così accadere che proprio chi bolla come eretico e scismatico chiunque non si allinei alla sua posizione lo sia egli stesso senza rendersene conto (il che non significa che non ne sia responsabile); gli estremi si toccano. Per quanto, dunque, lo smarrimento sia grave e l’autorità ecclesiale manchevole nell’istruire e guidare i fedeli, non bisogna aggrapparsi alla prima proposta che abbia un’apparenza seria o rivendichi un’origine soprannaturale. Il nostro è un cammino estremamente arduo e faticoso, ma sostenuto dall’assistenza dello Spirito Santo e da un’incrollabile fede nell’indefettibilità della Chiesa nel suo complesso, a prescindere dagli atti di apostasia pratica o verbale di questo o quel Pastore che tradisce la propria missione, ricevuta da Cristo stesso.

La fede, d’altronde, non ci esonera dalla lotta, ma deve anzi necessariamente maturare e fortificarsi mediante le prove e notti interiori che il Signore dispone per la nostra crescita spirituale. Anche se la prova odierna è generale e pare interminabile, la virtù di fede richiede di sopportarla con pazienza senza deflettere dalla sana dottrina, coltivando la speranza ed esercitando la carità. L’indebolimento di quest’ultima virtù fa sì che la desolazione permessa dall’Alto per il nostro progresso degeneri in quell’aridità che è sintomo di indurimento. Voler trovare a tutti i costi una sicurezza umana che accorci la notte non solo ci espone al pericolo di eresia testè indicato, ma è già di per sé contrario alla fede, perché così non si fonda più la propria fiducia su Dio solo e sugli strumenti scelti dalla Sua provvidenza, ma sui mezzi che ognuno sceglie a piacimento da sé. Oltretutto c’è il rischio che, dietro l’apparenza di un santo zelo, si camuffino astio e ribellione, i quali alimentano una fame morbosa di critica e polemica che, come una dipendenza, ha bisogno di essere regolarmente saziata mediante convegni e conferenze in cui ridirsi sempre le stesse cose tra i soliti noti: per la vita interiore e lo spirito di preghiera, è la morte. In conclusione, tutti possiamo errare per debolezza, dato che è umano, ma ostinarsi a perseverare nell’errore… è qualcos’altro.

Ecco, io vengo. Sul rotolo del libro di me è scritto che io faccia il tuo volere. Mio Dio, questo io desidero, la tua legge è nel profondo del mio cuore. Ho annunziato la tua giustizia nella grande assemblea; vedi, non tengo chiuse le labbra, Signore, tu lo sai (Sal 39, 8-10).

P.S. Venerdì prossimo, 13 ottobre, aderiamo tutti alliniziativa di preghiera e digiuno per lItalia.

(1) Il cardinal Burke ha recentemente ricordato, fra l’altro, che non è lecito a fedeli cattolici frequentare liturgie celebrate da vescovi o sacerdoti in situazione irregolare.